di Riccardo Cristiano*
Alla fine di questa settimana, domenica, arriverà il quinto anniversario del sequestro di padre Paolo Dall’Oglio, rapito a Raqqa il 29 luglio 2013. Da allora di lui non si sono più avute né tracce né notizie. Era la seconda volta che rientrava in Siria dopo esserne stato espulso dal regime di Assad: espulso, come i cinque milioni di siriani costretti a lasciare le loro case quasi sempre distrutte dai signori della guerra. Espulso prima, come milioni di siriani, e sequestrato poi, come la Siria è stata sequestrata dai signori della guerra e seguita ad esserlo.
Paolo sapeva i rischi che correva, lo sapeva la prima volta, quando volle andare a pregare sulle fosse comuni di tanti siriani senza colpa, accatastati lì, come era stato possibile o voluto, nella valle dell’Oronte. Conosceva i rischi di quel suo viaggio ma sapeva anche di doverlo fare, perché a differenza di molti altri non poteva dimenticare quei siriani, quale lui si considerava, innocenti come lui. Quando arrivò a Beirut, prima che andasse negli studi della Tv Orient a raccontare la sua avventura, lo sentii: era primo mattino, ma il mio sollievo per il suo scampato pericolo era diverso dalla profondità della sua consapevolezza dell’enormità della tragedia che si stava svolgendo in quella valle, non distante dalla valle libanese della Beqaa.
Quando capì che l’Isis stava per arrivare da forza dominante a Raqqa, la prima città siriana liberata dal regime siriano e autogestita dalla popolazione civile, capì che il peggiore scenario stava per avverarsi. Un attivista di Raqqa, tra i primi organizzatori delle manifestazioni di Raqqa del 2011 contro il regime, era stato sequestrato dall’Isis. Doveva cercarlo, magari salvarlo, come in un’altra occasione aveva fatto, riuscendo a salvare dei cristiani sequestrati da jihadisti prima della sua espulsione. Non fu una passeggiata quel salvataggio che racconta in un suo libro in cui racconta come nella paura aveva seguitato a sperare. Nel 2013 continuava a sperare, a parlare di speranza, ma immaginava che dopo la conquista di Raqqa da parte dell’Isis si sarebbero aperte le porte dell’inferno per tanti cristiani e non solo per loro. Passava da Raqqa la sua speranza di un approccio diverso, plurale, democratico, cittadino, basato quindi sul dialogo, senza il quale vedeva solo torture, fughe di massa, deportazioni, assassinii, sequestri.
Ricordo benissimo quando mi disse, e disse in tante altre circostanze, che la gestione della bomba umana di milioni di fuggiaschi avrebbe messo in crisi l’Europa. Era un altro motivo di angoscia che lo induceva ad auspicare che i siriani già giunti in Europa venissero aiutati a cercare tra di loro quel dialogo, quell’apertura del cuore, quella reciproca comprensione, e quella comprensione con noi europei, che in patria non riuscivano ad avviare.
Oggi la tragedia siriana è dimenticata quasi da tutti, anche nei suoi sviluppi d’attualità, quelli che hanno visto cadere la città meridionale di Daraa immersa in altre fughe disperate e altro sangue, quella che ha visto tanti del corpo dei volontari civili evacuati miracolosamente da Quneitra. La tragedia siriana se ci riguarda lo fa per la speranza che i suoi profughi ritornino in una patria distrutta dove nessuno si chiede in quali località verrebbero portati e con quale sicurezza per il loro futuro, dopo esserne stati scacciati con la forza.
Ricordare Paolo Dall’Oglio, uomo di pace e dialogo in una terra di sangue e sopraffazioni, vorrà dire ricordarci che senza dialogo il Mediterraneo non tornerà ad essere il Mare Nostrum che abbiamo conosciuto sui libri di storia, ma rimarrà il Mare Mostrum che abbiamo conosciuto in questi anni drammatici. Bambini con la scabbia, donne con gli occhi vitrei dopo giorni trascorsi alla deriva, aggrappate a una zattera, un popolo senza terre promesse che nessuno vuole vedere, riconoscere, ascoltare.
Davanti alla tragedia dei boat people del sud est asiatico il padre generale dei gesuiti, Pedro Arrupe, si attivò fondando il Jesuit Refugee Service. Oggi davanti ai boat people del Mediterraneo si chiudono i cuori prima dei porti. Questo è diventato il Mediterraneo dalla guerra siriana in poi, come aveva previsto padre Paolo Dall’Oglio.
Chi del mondo dell’informazione lo ricorderà cinque anni dopo il sequestro non ricorderà un evento oscuro e lontano, ma ricorderà che un’altra strada era possibile ed è possibile, volendo. Una strada diversa per loro e per noi, costruita sui ponti civili, spirituali, umani, culturali. E nella denuncia, o testimonianza, della verità. Ricordare padre Paolo Dall’Oglio vorrà dire chiedere ai giovani europei d’oggi, come Papa Francesco ha chiesto ai giovani del Caribe poche ore fa: «I giovani sono giovani, o sono giovani invecchiati? Perché se sono giovani invecchiati non possono fare alcunché. Devono essere giovani 'giovani'. Con tutta la forza della gioventù per trasformare. E la prima cosa che devono fare è vedere se sono installati. Perché se sono installati la cosa non va. Devono disinstallarsi quelli che sono installati. E cominciare a lottare».
Ricordare Paolo vorrà così dire, e finalmente, disinstallare da noi l’oblio di tutte le decine di migliaia di figli del Mediterraneo inghiottiti nel buio di questi conflitti, di questi muri, di questi silenzi, di queste catastrofi umane e ambientali. Ricordare Paolo non sarà fare un santino di poche righe, o pochi secondi, tanto per onorare una ricorrenza. Ricordarlo vorrà dire riaprire la memoria per capire il presente e impegnarsi a costruire, grazie al dialogo, un futuro diverso. Nel nome del vivere insieme.
*Riccardo Cristiano è il presidente dell'Associazione giornalisti amici di padre Dall'Oglio