Il New York Times analizza l’accidentato percorso di Playboy in Indonesia, caratterizzato da sconfitte, improvvisi ritorni al successo e snaturamento della rivista. Il direttore dell’edizione indonesiana, Erwin Arnada, ha dovuto rispondere nei giorni scorsi alle domande della polizia, dopo una formale denuncia per indecenza.
Preludio a un processo, l’interrogatorio si è invece risolto con un’apparente tregua tra la rivista e i suoi avversari. Arnada sembra aver vinto la sua battaglia di “modernizzazione” contro i veti della cultura islamica integralista. Ma il rovescio della medaglia c’è, e il prezzo da pagare per la sopravvivenza del magazine in Indonesia è alto. Dapprima stabilitasi negli uffici di Giacarta, la redazione ha dovuto fare armi e bagagli alla volta di Bali a causa di minacciose proteste di piazza e interrogazioni parlamentari. Contro Playboy si è schierato il Fronte di Difesa dell’Islam, offeso per i contenuti di una pubblicazione arrivata nel cuore della sua cultura, anche se con passo felpato. Per evitare possibili problemi, infatti, la rivista era uscita senza foto di nudo e con articoli “soft”. Ma non è bastato per placare i censori. Il secondo e terzo numero del magazine hanno peraltro sancito la vittoria di Arnada: vendite soddisfacenti, sponsor disponibili, entrate pubblicitarie. Ma la rivista non è più se stessa. Le fotografie delle modelle si addicono più a un mensile di cucina che a una pubblicazione erotica; gli articoli affrontano temi di attualità politica e sociale. Dov’è Playboy?, si domandano in molti. Il tutto, mentre Arnada è costretto a rispondere alle domande della polizia e mentre altre riviste - ben più spregiudicate - si affacciano al mercato indonesiano praticamente senza guai. (9Colonne)