Permessi sindacali. Il parere legale dell'avv. Del Vecchio per conto della Fnsi "L'atteggiamento dell'editore è contrario alla normativa in vigore e in caso di mancata retribuzione dei permessi reprimibile per comportamento antisindacale (art 28 della legge 300)"
Secondo la posizione ultimamente assunta da un editore, la concessione dei permessi sindacali retribuiti di cui all’art. 23 del CNLG, dovrebbe essere subordinata all’indicazione, nella relativa richiesta, del tempo presuntivo di impegno, con successiva attestazione dell’impegno effettivo e della correlata comunicazione delle funzioni affidate o chiamate a svolgere. Tali elementi costituirebbero, sempre per l’editore, un riferimento indispensabile ai fini dell’organizzazione delle presenze redazionali e dei conseguenti regimi produttivi. Codesta Federazione ha richiesto un parere in merito alla fondatezza giuridica di tale posizione.* L’articolo 23 del CNLG, al paragrafo dedicato ai permessi sindacali, dispone testualmente: “Ai giornalisti che ricoprono cariche negli organi previsti dagli statuti della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e delle Associazioni regionali di stampa federate o che risultino delegati ai congressi della categoria oppure incaricati delle trattative sindacali ovvero membri della Commissione di cui all’art. 47 saranno concessi permessi retribuiti per il tempo strettamente necessario per lo svolgimento delle funzioni. (...)” Con l’espressione “saranno concessi permessi retribuiti per il tempo strettamente necessario per lo svolgimento delle funzioni”, le parti firmatarie del CNLG hanno inteso garantire ai dirigenti sindacali che rientrano nell’ambito della norma, l’effettivo espletamento del loro mandato. La disposizione è, quindi, sostanzialmente analoga a quella contenuta nell’art. 23 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) dettata per i rappresentanti sindacali aziendali. Con il CNLG, pertanto, la tutela apprestata dal legislatore in favore dei sindacalisti “interni al luogo di lavoro” viene estesa ai dirigenti sindacali che ricoprono incarichi federativi e/o associativi. Sulla natura dei permessi sindacali retribuiti è subito iniziato, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Lo stesso si è sviluppato, ovviamente, sulla norma di fonte legislativa, anche se i principi elaborati nel tempo sono applicabili ad analoghe norme di fonte collettiva, come quella contenuta nel CNLG, prima trascritta. Fra i vari tipi di permessi retribuiti, quelli previsti dalla normativa in esame devono essere inquadrati nell’ambito della c.d. legislazione di sostegno dell’attività sindacale ed hanno come obiettivo quello di consentire ai rappresentanti sindacali di svolgere le loro funzioni in piena libertà, senza il disincentivo che sarebbe oggettivamente rappresentato dalla perdita della retribuzione. In questo senso, la disposizione si pone come una puntuale realizzazione del principio di libertà sindacale, che ha come necessario corollario la possibilità del libero svolgimento dell’attività sindacale. La norma statutaria (e la norma collettiva, per i dirigenti sindacali diversi da quelli aziendali) configura a favore del sindacato e del proprio dirigente un vero e proprio diritto soggettivo pieno ed incondizionato, che esclude ogni potere di concessione o autorizzazione del datore di lavoro in ordine alla fruizione dei permessi. In tale senso si è espressa la giurisprudenza della Suprema Corte la quale ha peraltro specificato che l’esercizio di tale diritto è subordinato al solo adempimento dell’onere della comunicazione al datore di lavoro (Cass., 20 novembre 1997, n. 11573). Il carattere pieno ed incondizionato del diritto alla fruizione di tali permessi è stato ulteriormente ribadito dalla Corte di cassazione con sentenza n. 14128 del 15 dicembre 1999. Secondo il Giudice di legittimità, la norma contenuta nell’art. 23 Stat. lav., non contiene alcuna indicazione circa le modalità di concreta utilizzazione dei permessi ed in particolare non impone né prescrive che essi debbano essere fruiti esclusivamente con brevi, molteplici ed intermittenti astensioni dal lavoro e, tanto meno, stabilisce criteri per determinare la durata di ogni singola astensione. Sicché non può ritenersi esclusa la possibilità di una fruizione di permessi aventi ciascuno una durata non limitata, che può essere anche di molti giorni consecutivi. Stabiliti tali principi, si è posto il problema relativo alla esatta definizione ed individuazione dei poteri e delle facoltà del datore di lavoro in materia di permessi sindacali retribuiti. E’ opinione costante, sia in dottrina che in giurisprudenza, che la posizione del datore di lavoro, nel momento in cui riceve la comunicazione da parte del Sindacato relativa al permesso, è di mera soggezione. In altri termini, il datore di lavoro non ha alcun potere di controllo circa le modalità di esercizio dei permessi e non ha alcun potere di sindacare le concrete modalità di attuazione dei medesimi. La fruizione dei permessi sindacali presuppone unicamente la previa comunicazione al datore di lavoro, finalizzata unicamente a render nota al datore di lavoro l’intenzione del sindacato (e del relativo dirigente) di esercitare il proprio diritto. Tale comunicazione, peraltro, non deve necessariamente specificare le ragioni per cui viene richiesto il permesso, essendo sufficiente, come argomenta la giurisprudenza, un generico riferimento al carattere sindacale dello stesso. (Tra le altre, Cass. 9 ottobre 1991, n. 10593). Il riferimento, peraltro, è già insito nel fatto che è il Sindacato medesimo a comunicare la volontà di usufruire del permesso. Pertanto, il datore di lavoro, secondo alcune pronunce giurisprudenziali, non ha alcuna possibilità di controllo sull’inerenza del permesso all’attività sindacale da svolgere (Cass. 9 ottobre 1991, n. 10593 e Cass. 30 ottobre 1990, n. 10476). Il principio è certamente rigido ed è stato temperato da un successivo pronunciamento della Corte di legittimità, secondo il quale se è vero che al datore di lavoro non può essere riconosciuto alcun diritto di verifica sulla natura dell’attività che il dirigente sindacale intende svolgere, rimane tuttavia salva la possibilità, per il datore di lavoro medesimo, di contestare l’uso dei permessi a fini personali o comunque diversi da ragioni sindacali. (Cass. 22 aprile 1992, n. 4839). A parere di chi scrive, tale ultima argomentazione è condivisibile, in quanto un simile comportamento del dirigente sindacale, risulterebbe peraltro contrario ai principi di correttezza e buona fede contrattuale, fissati dalla vigente normativa agli articoli 1175 e 1375 del codice civile. In ogni caso, però, come argomentato sempre dal Giudice di legittimità in un recente provvedimento, il controllo del datore di lavoro “non può concretizzarsi in condotte volte ad accertare in via preventiva se la richiesta dei permessi sia o meno indirizzata alla partecipazione alle riunioni. Non è consentito - prosegue la Suprema Corte - far dipendere, come si fosse in presenza di qualche atto autorizzativo, la concessione dei permessi ad un preliminare esame della relativa domanda e da una positiva valutazione del suo contenuto.” (Cass. 1 agosto 2003, n. 11759). Per tutto quanto ora illustrato, quindi, la posizione assunta dall’impresa editoriale è assolutamente illegittima. Se la normativa di legge o, nel caso in questione, la normativa pattizia non stabiliscono limiti temporali ai permessi sindacali, nonché nessun altro limite di carattere contenutistico, è esclusa per il datore di lavoro, una volta ricevuta la comunicazione del permesso, ogni possibilità di sindacato. Ed il termine “comunicazione” è utilizzato a ragion veduta: il Sindacato non richiede il permesso ma si limita a comunicare la volontà di fruizione del medesimo. La pretesa formulata dall’editore implica, invece (ed in maniera del tutto illegittima), la richiesta di un permesso, la valutazione del medesimo e, addirittura, un potere discrezionale di concessione. Se il Sindacato nulla deve richiedere, il datore di lavoro nulla deve concedere. Il permesso sindacale è, come prima illustrato, un diritto soggettivo, che non può essere negato per nessuna ragione, qualora l’associazione sindacale comunichi al datore di lavoro la propria intenzione di usufruirne. Il Sindacato non è tenuto ad indicare nella comunicazione la delimitazione della durata del permesso, non è tenuto ad attestare l’effettivo impegno del dirigente, non è tenuto ad indicare le funzioni affidate o chiamate svolgere. Il datore di lavoro che invece richiede ciò, esercita un potere di ingerenza che, alla luce di quanto prima esposto, anche con riferimento alla costante elaborazione giurisprudenziale, non è assolutamente ammissibile. E né si può giustificare tale richiesta con motivi di organizzazione delle presenze redazionali e dei conseguenti regimi produttivi. Infatti, anche sul punto la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi, mettendo in luce che il pieno ed incondizionato diritto ai permessi sindacali non è neppure subordinato alla compatibilità con esigenze aziendali (Cass. 20 novembre 1997, n. 11573). Il datore di lavoro, si legge in un’ulteriore pronuncia, “al fine di assicurare il pieno esercizio dell’attività sindacale, deve dunque modellare la propria organizzazione e disciplinare la forza lavoro in modo da rendere effettivo il godimento del diritto ai permessi, non potendo appellarsi all’esigenza del regolare svolgimento dell’attività d’impresa per negare il suddetto diritto o per limitarne il contenuto.” (Cass. 1 agosto 2003, n. 11759). Concludendo, l’atteggiamento assunto dall’editore in questione è contrario alla normativa in vigore e può integrare, una volta concretizzatosi nel diniego dei permessi sindacali comunicati, ovvero nella mancata retribuzione dei medesimi, un comportamento antisindacale reprimibile attraverso la speciale procedura prevista dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.. avv. Bruno Del Vecchio