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Editoria 20 Lug 2010

"L'informazione non è una merce qualsiasi " Intervista a Franco Siddi dal sito Infodem di Beppe Lopez

Crisi dei giornali e rischio chiusura per "Liberazione". Franco Siddi, segretario della Fnsi, il sindacato dei giornalisti alle prese con una crisi di settore forse mai vista prima, per dimensione e complessità, tiene a premettere: “Credo che l'informazione non possa essere trattata come una merce qualsiasi. E' un bene pubblico e come tale meritevole di un'attenzione speciale da parte dello Stato inteso come massima espressione della garanzia dei diritti dei cittadini all'accesso di tutti i beni pubblici indispensabili. L'informazione è uno di questi. E il pluralismo ne è la ricchezza fondamentale. I giornali che assicurano la disponibilità per tutti, nel circuito dell'informazione, delle idee diverse che aggregano persone facendole diventare cittadini consapevoli delle proprie scelte civili e politiche, sono anch'essi un bene pubblico”.

Crisi dei giornali e rischio chiusura per "Liberazione". Franco Siddi, segretario della Fnsi, il sindacato dei giornalisti alle prese con una crisi di settore forse mai vista prima, per dimensione e complessità, tiene a premettere: “Credo che l'informazione non possa essere trattata come una merce qualsiasi. E' un bene pubblico e come tale meritevole di un'attenzione speciale da parte dello Stato inteso come massima espressione della garanzia dei diritti dei cittadini all'accesso di tutti i beni pubblici indispensabili. L'informazione è uno di questi. E il pluralismo ne è la ricchezza fondamentale. I giornali che assicurano la disponibilità per tutti, nel circuito dell'informazione, delle idee diverse che aggregano persone facendole diventare cittadini consapevoli delle proprie scelte civili e politiche, sono anch'essi un bene pubblico”.

Con un partito non più in grado di sostenere economicamente il giornale, con il finanziamento pubblico tagliato e appeso ad un filo di ragnatela, e con un mercato pubblicitario travolto da un potente fenomeno di progressiva concentrazione nel mezzo televisivo e in pochi, grandi gruppi editoriali, Liberazione rischia di chiudere in un futuro ormai prossimo. Ritieni che si tratti di un inevitabile processo di selezione o di una ulteriore, grave lesione al pluralismo delle opinioni nel nostro Paese al quale opporsi con ogni mezzo?

“I giornali non possono essere costretti alla chiusura da leggi darwiniane che il mercato imporrebbe sul piano commerciale. Liberazione è un giornale politico e di idee importanti. Non può essere condotto alla chiusura da un processo sostanzialmente indotto dalle autorità dello Stato che cambiano dalla notte al giorno le regole del gioco e soprattutto tagliano il paniere delle risorse destinate a questo genere di media. Abbiamo vissuto purtroppo anni e anni di sottovalutazione del processo di mutamento dei paradigmi di riferimento attraverso i quali vanno individuati i valori fondanti della convivenza e di una democrazia vitale. E questo ha favorito l’affermarsi di una concezione di normalità che vede, nel gruppo dirigente oggi al vertice del Paese, l’espressione massima. Esso pare considerare i giornali politici e di idee un peso da cui liberarsi e comunque non più un bene pubblico. E si mostra totalmente estraneo alla cultura liberale, per cui non si possono cancellare le opinioni diverse da quelle della maggioranza. Per questo ceto al comando sembra che chi matura e coltiva opinioni diverse compia un delitto. Quanto sta avvenendo – i tagli orizzontali nel sistema dell’editoria – è una vera lesione al pluralismo delle opinioni. Opporsi è doveroso, anche se una maggioranza che si fa volgare e brutale pare voler rifiutare qualsiasi ragionevole confronto”.

Quindi, come opporsi a questa “dittatura della maggioranza”? E con quali?

“Non c’è un solo mezzo di contrasto. Credo che il principale debba partire dalla serietà dei comportamenti, ispirati da una condizione professionale-politica chiara e trasparente e da una chiara evidenza della corresponsabilità che assume l’area politica ispiratrice. Da sola questa area, è evidente, non può farcela. Ma, se tiene al suo giornale, una sua parte deve farla anche il partito o la sua area politica più vasta. Poi una strada può essere quella dell’impresa sociale di tutti i soggetti interessati (partiti, giornalisti e lavoratori del giornale, elettori). Occorre, inoltre, fare rete innanzitutto con i giornali di idee, con i sindacati, compreso quello dei giornalisti, con i cittadini e con quella parte della politica che tiene a cuore le ragioni del pluralismo. C’è una battaglia da fare in Parlamento e fuori. C’è un presidio da tenere aperto comunque e c’è bisogno di suscitare una coscienza pubblica nuova. Non è facile riuscirci in una società che ha ridotto la politica a banalità da sottoscala o da bordello. Ma bisogna provarci. Il Sindacato dei giornalisti sarà fino all’ultimo a fianco di chi esprime ogni voce storica o rappresentativa che altri vogliono, per ragioni di potere o di mercato, comprimere o spegnere”.

Cosa ti sta più a cuore del ruolo, della testimonianza e della storia di Liberazione?

“Innanzitutto la sua capacità di essere voce critica e di illuminare problemi del mondo del lavoro e della sua marginalità che, in tanti, anche a sinistra, oggi considerano non da primo piano. Far parlare chi non ha voce, chi vive le condizioni di un precariato senza fine, proporre analisi e chiavi di interpretazione proprie su cui aprire confronto e cercare soluzioni è una delle espressioni di testimonianza di Liberazione. Caduto il comunismo storico, il giornale non ha rinunciato ad un’idea importante di liberazione dei popoli meno favoriti, pur attraversando dibattiti laceranti e non conclusi – persino nel suo mondo di ancoraggio - sugli sbocchi non solo politici ma anche organizzativi. Per questo Liberazione è ancora un giornale di segno che ha diritto ad accedere al pubblico dei lettori per una testimonianza che nasce da condizioni reali del Paese”.

A che punto è il confronto con il governo sulle risorse e sulle modalità di assegnazione delle provvidenze per l’editoria?

“E’ fermo all’eterna promessa: di stati generali; di nuove regole di trasparenza, di annunci di una revisione dei criteri di finanziamento cancellando i giornali fasulli e quelli impropriamente finanziati attraverso le regole dei giornali politici (per intenderci quelli ai quali in una stagione non molto lontana bastavano le firme di due parlamentari di sostegno perché fossero qualificati come politici). Ma di tutto ciò non si vede nulla di concreto. Per gli stati generali vengono annunciate le date senza che mai parta una vera convocazione. Così da oltre due anni. Ed è cosi anche per un regolamento nuovo con il quale anticipare in qualche modo la riforma della legge, ormai trentennale, n.416 per l’editoria. I giornali devono camminare sulle proprie gambe, certamente, ma nel tempo della grande crisi che viviamo, per consentire che le testate non meramente mercantili non siano escluse, cancellate dalla rete distributiva e raggiungano tutto il pubblico del Paese, sono necessari sostegni pubblici per un livello essenziale di accesso al mercato dei lettori. Il confronto vero però oggi non c’è. Non basta qualche convegno. Organizzazioni come la Fnsi continuano a tenere viva l’attenzione per impedire che si cancelli dall’agenda del Paese un problema vitale che appartiene alla disponibilità di un bene essenziale e al funzionamento del circuito democratico delle notizie e delle idee”.

Ritieni che il necessario superamento delle attuali e spesso scandalose norme della legge per l’editoria possa imporre anche in Italia un nuovo ragionamento sul valore sociale e culturale della informazione di qualità e del pluralismo delle opinioni, quindi da tutelare e da distinguere dal giornalismo commerciale proprio dei grandi gruppi? Cosa sta facendo il sindacato perché si possa aprire questa nuova pagina nella storia dell’informazione italiana, che oggi aggiunge ai vecchi vizi della subalternità al potere economico e politico quelli del cinismo informativo, dell’abuso di posizioni dominanti e della riduzione del mercato a poche testate e centrali editoriali?

“Sul valore dell’informazione come bene pubblico, la mia e la risposta del Sindacato dei giornalisti, c’è già. Credo che certamente sia necessario un sostegno pubblico di base per liberare e sostenere il pluralismo. Non penso, tuttavia, che questo ragionamento debba passare come soluzione finale dell’antagonismo con l’informazione commerciale tipica dei grandi gruppi. Si tratta di impostare diversamente la questione se si vuole concretamente sperare di individuare soluzioni equilibrate. Per quanto attiene il valore sociale e culturale dell’informazione di idee e dell’informazione che chiamerei generalista in senso lato, occorre stabilire misure egualitarie di partenza e di accesso al mercato dei lettori e, di conseguenza, al paniere delle risorse di sostegno pubblico. Poi c’è un secondo capitolo, nel quale deve entrare una pari considerazione delle linee pubbliche di intervento di sviluppo industriale, che non può non considerare tra i suoi settori anche quello dell’editoria contrariamente a quanto sta avvenendo. E c’è un terzo capitolo che deve essere imperniato, per tutti, sul peso del lavoro professionale regolarmente assicurato da tutte le imprese che fanno informazione. Sicuramente non si può immaginare una riforma a misura degli oligopoli o delle grandi concentrazioni editoriali, perché ciò determinerebbe l’affermazione del pre-potere dei poteri già forti e non autenticamente editoriali. Provocherebbe, inoltre, la morte di tante testate vitali per il pluralismo e la democrazia e anche l’eliminazione di posti di lavoro sostenuti sin qui con grandi sacrifici dai protagonisti di questa realtà”.

Del resto, hai sempre sostenuto che in un mondo ideale, i sostegni dovrebbero andare solo alle imprese editoriali dei giornalisti e dei lavoratori che realizzano e accompagnano la produzione del bene-informazione da offrire al pubblico…

“… E che nel mondo reale, fatto da una trasformazione impetuosa che determina enormi difficoltà per gli assetti e il numero dei posti tradizionali anche nell’area del lavoro ora garantito, un taglio netto verso l’editoria commerciale rischierebbe di estendere la crisi delle voci e del lavoro. C’è da affrontare una questione di transizione e un’altra di visione strategica. Per farlo servirebbe confronto vero, oltre gli interessi contingenti di qualcuno e senza indulgenze o favoritismi predeterminati verso gli attuali assetti di potere del sistema editoriale italiano”.
Intervista a Franco Siddi (*)

(*) B.L., Liberazione, 20 luglio 2010 

 

@fnsisocial

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