di Marco Damilano*
Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi, per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dell’Espresso, dopo quattro anni e mezzo.
Sento in questo momento di dover dare qualche spiegazione ai lettori, che per un giornalista sono i veri padroni. Per un debito di gratitudine nei vostri confronti, per senso di responsabilità, per un dovere di verità.
Lascio la direzione del settimanale dopo quasi quattro anni e mezzo di direzione e esattamente dopo ventidue anni di servizio prestato nella testata più importante del giornalismo italiano, un mito per chi fa il nostro mestiere.
Fui assunto, infatti, il primo marzo 2001. Entrai con emozione nella mia stanza, nella vecchia sede di via Po, la palazzina liberty affacciata su villa Borghese, con il parquet ai pavimenti, nelle stanze si fumava e si rideva, c’erano Guido Quaranta, Edmondo Berselli e il mio adorato Giampaolo Pansa. Il direttore era Giulio Anselmi, dopo Claudio Rinaldi. Uno squadrone, la redazione più forte d'Italia, in un Paese dominato da Silvio Berlusconi che di noi aveva paura.
Per arrivare alla mia stanza, ogni mattina, percorrevo un lungo corridoio al secondo piano dove quasi sempre incontravo una figura alta e magra, Carlo Caracciolo, il principe-editore. A volte lo incrociavo che si faceva il caffè nella piccola cucina di servizio, altre volte con il cane. Era lì con noi, in mezzo ai giornalisti e al giornale che aveva fondato e che amava più di ogni altra cosa. L'Espresso.
Tutto era partito da lì, in effetti: via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, nel 1955. «Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d'una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture», ha scritto Eugenio Scalfari che con Caracciolo partecipò alla fondazione. Omaggiando, dieci anni dopo, il pubblico «giovane, moderno, privo di tribù ma anche privo di cinismo, pessimista forse sul presente ma profondamente fiducioso nell'avvenire del Paese».
Da quella nave Espresso è partita una flotta di modernità, di progresso, di costruzione della democrazia italiana: prima con la nascita di Repubblica, nel 1976, poi con la rete dei giornali locali, infine con il gruppo Gedi, dopo la fusione con la Stampa.
L'Espresso ha segnato la storia del giornalismo italiano. I diritti civili, le grandi inchieste, la lotta contro le mafie, le massonerie e tutti i poteri occulti, la laicità dello Stato, l'ambiente, la tenuta della democrazia italiana. Siamo sempre stati schierati, a volte sbagliando, ma mai venendo meno al nostro codice genetico.
Sono le stesse battaglie che abbiamo portato avanti in questi quattro anni e mezzo. L'Espresso ha raccontato l'Italia che cambia, con l'inizio della nuova legislatura, nel 2018, il governo dei sovranisti e dei populisti e poi l'incubo della pandemia, dal 2020.
Abbiamo dato voce a un pezzo di Italia, l'Italia migliore, come scrissi nel mio editoriale di presentazione nel 2017: le donne, i giovani, gli stranieri migranti, i territori.
Abbiamo combattuto con intransigenza contro chi voleva chiudere e isolare il nostro Paese.
Abbiamo rivelato, con inchieste che hanno fatto il giro dei media mondiali, i legami tra la Lega di Matteo Salvini e il regime di Vladimir Putin, abbiamo anticipato il processo in Vaticano nei confronti di un cardinale costretto a dimettersi.
Abbiamo tenuto fede al nostro patto con i lettori: essere una testata libera, accogliente, indipendente.
L'indipendenza è uno dei valori contenuti nella carta Gedi, accanto alla coesione. Con la redazione dell'Espresso abbiamo difeso questi valori, in anni difficili, sul piano editoriale e industriale.
In una situazione di crisi del mercato editoriale e con la difficoltà di far decollare la transizione digitale sempre annunciata e mai praticata. Mentre i giornali tradizionali perdono copie, lettori, peso politico, credibilità, fiducia.
La categoria dei giornalisti fatica a parlarne, si attarda nella difesa di quote di mercato sempre più ridotte. Gli editori tendono a scaricare le colpe della crisi sui costi industriali della produzione. Il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico non riesce a inquadrare il tramonto della stampa italiana all'interno di una questione più importante, perché tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche.
«La stampa in Italia costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti, su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì».
Non solo non troverai opinioni, ma nemmeno notizie: lo scriveva Aldo Moro, nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse, nel 1978.
Si pensa di risolvere la situazione rincorrendo le nuove opportunità offerte dal digitale, come in altri parti del mondo. Anche in Italia ci sono imprese che stanno dimostrando di saper affrontare con successo le sfide della transizione.
Ma non si può farlo immaginando di perdere la propria identità.
L'anima, il carattere di una testata.
È una scorciatoia che disorienta il pubblico e che prima o poi si dimostra illusoria.
Gedi è nel cuore di questa crisi. In un gruppo che aveva sempre fatto della solidità, della stabilità e della continuità aziendale e editoriale il suo modo di essere, soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica. E ora si vuole far pagare al solo Espresso l'assenza di strategia complessiva.
Ho appreso della decisione di vendere L'Espresso da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio. Ho chiesto immediati chiarimenti all'amministratore delegato Maurizio Scanavino, come ho sempre fatto in questi mesi.
Mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolate indisturbate e che hanno provocato un grave danno alla testata.
Non mi sono mai nascosto le difficoltà. Ho più volte offerto la mia disponibilità in prima persona a trovare una soluzione per L'Espresso, anche esterna al gruppo Gedi, che offrisse la garanzia che questo patrimonio non fosse disperso. Ma le trattative sono proseguite senza condivisione di un percorso, fino ad arrivare a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia.
La cessione dell'Espresso, in questo modo e in questo momento, rappresenta un grave indebolimento del primo gruppo editoriale italiano.
È una decisione che recide la radice da cui è cresciuto l'intero albero e che mette a rischio la tenuta dell'intero gruppo.
È una pagina di storia del giornalismo italiano che viene voltata senza misurarne le conseguenze.
Di più: L'Espresso è un pezzo di storia dell’intero Paese. Un Paese che rischia di diventare ancora più fragile in una funzione essenziale, la libertà di stampa, l'autonomia del giornalismo dai poteri, il ruolo critico di controllo verso chi governa le strutture politiche, economiche, finanziarie.
Ogni volta che c'è un cedimento, una cessione, è un pezzo che viene meno. E di questa storia L'Espresso non è comprimario, ma protagonista.
Per questo non c'è nulla di personale in questo mio saluto.
L'Espresso è sempre stato la mia casa e Gedi ha garantito il lavoro del nostro giornale. Ma se la casa viene cambiata, dall'arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. È una questione di coscienza e di dignità.
Lo devo ai lettori che ci hanno sempre seguito in modo esigente.
Lo devo alle giornaliste e ai giornalisti che costituiscono la straordinaria redazione dell'Espresso, alla rete dei collaboratori e delle firme eccezionali di questo giornale.
Mi è stata offerta la possibilità di restare, ringrazio, ma non posso accettare per elementari ragioni di dignità personale e professionale. Non è una questione privata, spero che tutto questo serva almeno a garantire all'Espresso un futuro e ad aprire un dibattito serio sul ruolo dell’informazione nel nostro Paese.
Ho cercato sempre di fermare una decisione che ritengo scellerata. Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Ma quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona.
Lo faccio io. Lo devo al mestiere che amo, il giornalismo. E soprattutto lo devo alla mia coscienza.
*L'editoriale di saluto ai lettori del direttore Marco Damilano è pubblicato qui.