La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23 del 2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo 'Decreto dignità' – che determina in modo rigido l'indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Lo rende noto la Consulta in un comunicato nel quale anticipa che la sentenza sarà depositata nelle prossime settimane. In particolare, spiega la nota, «la previsione di un'indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione».
La Corte, dunque, non mette in mora il meccanismo dell'indennizzo economico introdotto con il jobs act nei casi in cui non è previsto il reintegro del lavoratore, ma decreta l'illegittimità costituzionale del principio su cui si fonda il calcolo dell'indennità, stabilita sulla base dell'unico criterio dell'anzianità aziendale: 'due mensilità dell'ultima retribuzione', recita il comma contestato, 'per ogni anno di servizio'.
La Consulta ha dichiarato inammissibili o infondate tutte le altre questioni relative ai licenziamenti che erano state sollevate dal ricorrente tribunale di Roma, sezione lavoro: l'articolo 1, comma 7, della legge delega del 2014 e gli articoli 2 e 4 dello stesso decreto legislativo 23/2015.
I giudici delle leggi hanno dunque accolto, almeno in parte, le eccezioni sollevate dal tribunale di primo grado, che, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale, aveva precisato di ravvisare il contrasto con la Carta non nell'eliminazione della previsione del reintegro (salvi i casi in cui è stata prevista) e dell'integrale monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore, «quanto in ragione della disciplina concreta dell'indennità risarcitoria, destinata a sostituire il risarcimento in forma specifica, e della sua quantificazione», tra l'altro ritenuta «inadeguata» dal giudice di merito.