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Uffici Stampa 04 Gen 2007

Gli addetti stampa non sono giornalisti? Polemica tra Sergio Romano e la Fnsi

Pubblichiamo la lettera di risposta del Segretario generale aggiunto e Coordinatore del Dipartimento Uffici stampa della Fnsi, Giovanni Rossi, all'intervento di Sergio Romano, curatore della pagina delle lettere del Corriere della Sera sul ruolo dell'addetto stampa

Pubblichiamo la lettera di risposta del Segretario generale aggiunto e Coordinatore del Dipartimento Uffici stampa della Fnsi, Giovanni Rossi, all'intervento di Sergio Romano, curatore della pagina delle lettere del Corriere della Sera sul ruolo dell'addetto stampa

Ho letto, con attenzione, sul Corriere della Sera di sabato 30 dicembre, le valutazioni di Sergio Romano sull'Ordine dei giornalisti in risposta a una lettera. Dico subito che non vorrei entrare nel merito delle osservazioni al riguardo lasciando, come è giusto, ai colleghi del Consiglio nazionale del nostro Ordine la scelta di intervenire se lo riterranno opportuno. Sul tema, invece, degli Uffici stampa, da Romano così chiaramente delineato, vorrei dire qualcosa affermando, innanzitutto, che sono davvero spiacente di non essere d'accordo con questa posizione. L'idea che gli addetti stampa non siano e che, anzi, non debbano estere giornalisti, la trovo francamente in contrasto sia con i risultati del lavoro professionale di migliaia di giornalisti di enti pubblici e privati sia con una chiarissima legge (la 150 del 2000) dello Stato, approvata, appunto, sei anni fa, da una straordinariamente larga maggioranza parlamentare, con la sola esclusione della Lega Nord e di Rifondazione. Oggi l'attività giornalistica non ha una sola faccia. La Fnsi afferma che esistono più giornalismi proprio perché la complessità della società ha imposto un cambiamento epocale e straordinario. Prova ne sia che già oggi il lavoro della nostra categoria è regolato da più contratti (con la Fieg e con gli editori radiotelevisivi aderenti ad Aeranti-Corallo) che delineano attività diverse, ma sempre riconducibili a quella giornalistica. Nel prossimo futuro speriamo di sottoscrivere una intesa anche con l'Aran come previsto dalla legge già citata. Quanto, poi, al fatto che l'attività dell'addetto stampa sia la stessa di quella del portavoce vorrei ricordare che, anche concettualmente, si tratta di due professioni diverse. Fatto, questo, codificato della stessa legge 150 che regola l'attività di comunicazione e informazione nella pubblica amministrazione. Il portavoce può non essere un giornalista proprio per le motivazioni addotte da Romano, mentre l'addetto stampa è necessariamente un professionista dell'informazione in diretto rapporto con l'insieme dell'ente, pubblico o privato che sia, ma non con la sua rappresentanza politica o di vertice. Posso assicurare che migliaia di colleghi addetti stampa nella pubblica amministrazione e nel settore privato si comportano come veri giornalisti e non come «avvocati difensori». Giovanni Rossi Segretario generale aggiunto e Coordinatore del Dipartimento Uffici stampa della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) Da il Corriere della Sera del 2 gennaio 2007-01-04 Ordini professionali: l'anomalia dei giornalisti Lettere al Corriere Risponde Sergio Romano Qualche tempo fa lei intervenne sul Corriere per denunciare il carattere anacronistico degli ordini professionali, come sono attualmente ordinati, cioè a difesa del privilegio e ostacolo al merito. E poiché il problema è ancora aperto e attende una risposta in sede politica, credo che meriti qualche considerazione. Naturalmente la questione non è quella della esistenza di un ordine professionale di per sé. La questione sta nel fatto che da noi non si tratta, come in ogni Paese civile, di libere associazioni private, bensì di vere e proprie corporazioni imposte e regolate da una legge. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, esistono in ogni Stato le Bar Associations, ma non si ha l'obbligo di appartenervi per esercitare legittimamente la professione legale una volta che ne siano accertati i titoli. Una delle maggiori anomalie è rappresentata a mio avviso dall'Ordine dei giornalisti, una professione che in un Paese libero dovrebbe essere soggetta soltanto al giudizio del pubblico. Attualmente l'Ordine è minuziosamente regolato dalla legge 3 febbraio 1963 che si compone di ben 75 articoli e che impone vincoli ferrei al libero esercizio della professione. Varrà la pena di ricordare che l'Ordine è un frutto del fascismo. Fu istituito il 26 febbraio 1928, decreto n. 384, in funzione dei fini repressivi che il regime si proponeva. Ora i tempi sono cambiati e a parole non si perde occasione per esaltare la libertà, ma evidentemente la tentazione del privilegio continua a prevalere. Mi chiedo, e chiedo a lei, non sarebbe una bella prova di civiltà se dai ranghi stessi dei giornalisti si levassero voci perché la anomalia di questo ordine palesemente illiberale fosse cancellata? Roberto Vivarelli Firenze Caro Vivarelli, qualche giorno dopo l'articolo del Corriere a cui lei si riferisce, ricevetti la lettera di un giovane notaio con cui ebbi più tardi una conversazione. Mi disse che il suo Ordine garantiva la serietà e la preparazione professionale dei membri, che gli esami erano severi, che le tariffe erano molto ragionevoli, che la liberalizzazione avrebbe provocato un effetto «forbice»: servizi mediocri a prezzi stracciati e servizi di qualità a prezzi più alti di quelli praticati ora. Anche un difensore dell'Ordine dei giornalisti potrebbe sostenere che l'istituzione garantisce con l'esame di ammissione e i corsi universitari la competenza professionale, punisce la violazione dei principi deontologici, mette la categoria in condizione di meglio resistere alle interferenze esterne. Questi argomenti non sono privi di una certa validità, ed è probabile che la soppressione degli Ordini, se mai qualche governo ne avrà il coraggio, creerebbe, soprattutto nella fase iniziale, un certo numero di inconvenienti. Ma continuo a pensare che gli Ordini rappresentino una istituzione anacronistica e che i vantaggi della loro soppressione siano maggiori degli inconvenienti. Ecco, con particolare riferimento all'Ordine dei giornalisti, le mie ragioni. Non credo che i problemi di deontologia professionale debbano essere lasciati ai soci del club. Vi sono Paesi in cui il problema è stato risolto con la creazione di commissioni o collegi formati da rappresentanti della professione, rappresentanti dei consumatori, magistrati, avvocati, boniviri di diversa estrazione. L'idea che ogni persona debba essere giudicata dai suoi pari prefigura un possibile conflitto di interessi ed è feudale, cioè tipica di una società costituita da poteri autonomi, autogestiti e autoreferenziali. Gli Ordini obbediscono inevitabilmente alla logica dell'autoconservazione e del potere. Come ogni altro organismo associativo (penso ai sindacati) producono una nomenklatura dirigente con il suo inevitabile complemento di ambizioni personali, partiti, programmi elettorali. Per ottenere il consenso e l'appoggio dei soci la nomenklatura deve fornire servizi previdenziali, assistenziali, sanitari. Per finanziare questi servizi deve poter contare su un certo numero di soci, ma conservare al tempo stesso il principio della cooptazione. L'Ordine dei giornalisti ha creduto di potere raggiungere questo risultato con due misure molto discutibili: la moltiplicazione dei corsi universitari che fungono da praticantato (il tirocinio che precede l'ingresso nella professione) e l'estensione della qualifica di giornalista agli addetti stampa. I corsi universitari, soprattutto in un Paese dove gli sbarramenti all'accesso sono piuttosto bassi, producono un numero di aspettative che non ha alcun rapporto con le esigenze del mercato e finiscono per creare, soprattutto nelle fasi di mutamento e transizione, molto precariato. Gli addetti stampa non sono e non possono essere giornalisti. Il portavoce di un'azienda è un avvocato difensore, tenuto dal suo impegno professionale, a esaltare i meriti dell'azienda, della istituzione o della persona per cui lavora, nascondendone per quanto possibile i difetti. Non so davvero come l'Ordine possa conciliare la sua funzione di garante della deontologia con il desiderio di allargare agli addetti stampa la cerchia dei soci. Aggiunga a tutto questo, caro Vivarelli, che il giornalismo vive di libertà ed è, come sosteneva Thomas Jefferson, l'indispensabile pilastro di un sistema politico liberale. Gli Ordini professionali tendono a creare lealtà e solidarietà che possono entrare in rotta di collisione con il principio della libertà. Da Il Corriere della Sera del 30-12-2006

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