Caso chiuso. Non fu diffamatorio l’articolo che, nel 2005, portò Adriano Celentano e Claudia Mori a querelare per diffamazione giornale e giornalista autore del pezzo “Ritratto di famiglia in un inferno”, pubblicato da Panorama, nel quale si riportavano fatti inerenti la vita privata della famiglia dei due noti personaggi del mondo dello spettacolo.
Secondo la coppia, i fatti raccontati erano stati scelti dal giornalista per dare un’immagine distorta delle loro personalità e della loro vita familiare. E il tribunale di Milano aveva in primo grado condannato gli imputati, nel 2008, al risarcimento del danno morale.
Poi la Corte d’appello, ribaltando la sentenza, nel 2015 aveva assolto giornalista e direttore responsabile, non ravvisando nell’articolo gli estremi del reato di diffamazione a mezzo stampa. E ora, con la sentenza depositata oggi, lunedì 9 settembre, la Cassazione ha scritto la parola “fine” in calce alla vicenda confermando l'assoluzione dell’articolista «perché il fatto non costituisce reato».
Secondo la Suprema Corte, infatti, «non può affermarsi che la diffamazione sia stata consumata, nella specie, attraverso la selezione di fatti accaduti nel tempo, scelti opportunamente dall'articolista per dare una rappresentazione distorta della famiglia Celentano-Mori – si legge nella sentenza che rigetta il ricorso della coppia – essendo l'articolista libero di selezionare i fatti reputati rilevanti per l'illustrazione della personalità dei soggetti criticati, nonché della realtà di coppia e familiare».
Richiamando una giurisprudenza ormai consolidata, i giudici rimarcano inoltre il concetto di “verità sostanziale” dei fatti narrati: la «manipolazione» di un dato può essere «rilevante sotto il profilo della diffamazione», ma «perché ciò accada occorre che il risultato complessivo di questa operazione consista nello stravolgimento del “fatto”».
Mentre in questo caso nel ricorso presentato «sono lamentate valutazioni negative dei fatti – osservano i giudici di piazza Cavour – rese possibili dalla mancata considerazione di altri dati che, a giudizio dei ricorrenti, andavano contrapposti ai primi per la formulazione di un giudizio obbiettivo».
Quanto, infine, al titolo «inutilmente offensivo» dell'articolo pubblicato, come lamentato dai ricorrenti, la Cassazione ha ritenuto «corretto» il criterio a cui si era già attenuta la Corte d'appello milanese, secondo cui «del titolo non può essere ritenuto responsabile l'articolista, ove, come nella specie, questi si sia limitato a trasmettere l'articolo al giornale e sia stata la redazione a “titolare il pezzo”».