di Christian Ruggiero*
Lo straordinario laboratorio sociale forzosamente garantito dall’esperienza del lockdown – e da quella del lento ritorno alla “normalità”, sul quale pesa l’ombra di nuove ondate della pandemia – ha certamente fornito dati di grande interesse circa la possibilità di una più consapevole integrazione delle tecnologie digitali a disposizione nei contesti lavorativi e non solo. Tuttavia, la repentina conversione delle diverse attività lavorative al paradigma dello “smart working” ha condotto a più di un cortocircuito, e ancor più complicata appare la situazione allorquando la professione in esame è quella giornalistica. In generale, esistono diverse aree problematiche, che Federico Butera riconduce, in un recente articolo per la Rivista “Studi Organizzativi”, a sei ambiti che sembrano sufficientemente comprensivi: “i vincoli normativi tuttora vigenti malgrado il Decreto Legislativo del 2020; l’assenza o insufficienza di adeguati strumenti informatici e di reti di telecomunicazione robuste; la inadeguatezza delle postazioni di lavoro domestiche spesso contrastanti con gli spazi ridotti e con i suoi abitanti, in particolare i bambini; la inadeguatezza dei sistemi per la definizione dei risultati del lavoro; la scarsa chiarezza sul cambiamento organizzativo che tutti stanno vivendo; la scarsa capacità delle persone di gestire il work and life blurring, il confine fra vita e lavoro” (p. 147).
Sin da questa lista, emerge il primo cortocircuito che in qualche misura inquina il dibattito sullo smart working alla radice. Per renderla ancor più evidente, prendiamo a prestito una definizione da un altro articolo scientifico, per la Rivista “Cambio”: “Con il termine smart working ci si riferisce al lavoro svolto in qualsiasi luogo, purché fuori dai confini aziendali, usando intensivamente un dispositivo mobile e una tecnologia cloud per la condivisione di dati e informazioni e per la comunicazione organizzativa. Anche se, tipicamente, la casa è il principale luogo “altro” (Davis, Polonko 2001), tale lavoro può essere svolto anche da postazioni remote diverse, come gli internet cafe, le stanze d’albergo, gli uffici dei clienti, treni e altri mezzi di trasporto, tanto che alcuni hanno parlato di un vero e proprio “nomadismo lavorativo” (Liegl 2014). Il termine, che si riferisce quindi tecnicamente al lavoro svolto per mezzo di un dispositivo smart (smartphone, tablet, PC portatile, ecc.), è usato più in generale per descrivere qualunque tipo di lavoro svolto da una postazione remota (Cha, Cha 2014)”. Laddove questa grande varietà di luoghi non è tipicamente ma unicamente ricondotta all’ambiente domestico, è chiaro che alcune delle aree problematiche sopra citate, in particolare il tema dell’adeguatezza degli strumenti informatici e quello dell’adeguatezza delle postazioni lavorative, assurgono ad ostacoli il cui superamento eccede decisamente la pertinenza della cultura organizzativa. D’altronde, se mettiamo le categorie che definiscono l’essenza dello smart working, i suoi benefici e svantaggi in particolar modo dal punto di vista del lavoratore, alla prova di una professione come quella del giornalista, vengono alla luce ulteriori dubbi e paradossi.
Da una parte, la stessa definizione di un lavoro svolto almeno in parte al di fuori della sede aziendale attraverso strumenti smart coglie l’evoluzione della pratica giornalistica degli ultimi vent’anni almeno. Non solo parte dell’attività di reperimento delle notizie avviene necessariamente al di fuori di una redazione, ma, con la disponibilità di strumenti di ripresa sempre più facilmente trasportabili e sempre meno legati alla necessità di riversare il contenuto ripreso prima di poter procedere al suo confezionamento, la ratio tra lavoro svolto in sede e lavoro svolto in remoto si è sempre più sbilanciata verso il secondo polo. Sino ad arrivare alle frontiere del “mobile journalism”, ben riassunte nel sottotitolo di un libro di Nico Piro, “Come progettare, girare, montare e distribuire video professionali con il telefonino e... poco altro”.
Dall’altra, nella misura in cui l’informazione è un’opera intellettuale collettiva, come sottolinea Giancarlo Tartaglia nel primo contributo di questo dibattito sul tema del lavoro agile, c’è da chiedersi se alcune delle categorie utilizzate per definire lo smart working siano in termini assoluti adatte a definire, e in prospettiva ri-definire, la professione giornalistica. Ancora Butera, riassumendo il lavoro pluriennale di Domenico De Masi, descrive i vantaggi potenziali di un’adozione sempre più diffusa del lavoro a distanza per i lavoratori, le aziende e la collettività. Concentriamoci sulle prime due categorie: “Per i lavoratori aumenta, con l’autonomia, la possibilità di autoregolare tempi, luoghi e ritmi; si riduce la separatezza tra lavoro e vita; migliorano sia le condizioni di lavoro che la gestione della vita familiare e sociale; si risparmiano tempo, fatica, spesa e rischi del pendolarismo. Per l’azienda si riducono i costi fissi per edifici, postazioni di lavoro e servizi; si risparmiano i costi di gestione (illuminazione, riscaldamento/aria condizionata, pulizia, manutenzione certificazione e messa a norma degli impianti); diminuiscono la microconflittualità, l’assenteismo e il turn-over; la produttività aumenta del 15-20%; è possibile integrare i diversamente abili e le persone svantaggiate; si può accedere ai benefici fiscali; sono facilitate la crescita dimensionale e l’espansione geografica” (p.146). L’autonomia e i margini di autoregolazione del tempo di lavoro è una dimensione inscritta nel Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico, altra dimostrazione del fatto che il lavoro di giornalista è “smart” in partenza.
ospendiamo il giudizio sulla gestione della vita familiare e sociale, perché gli effetti della “solitudine” ingenerata dallo smart working, ai quali Albano, Parisi e Tirabeni dedicano un interessante paragrafo nel già citato articolo per “Cambio”, sono ancora da verificare nel contesto dell’Italia del post-lockdown, per tutte le categorie di lavoratori. Quanto alle altre variabili – tempo, fatica e spese, in particolar modo per i trasporti –, esse si applicano chiaramente al contesto aziendale che intende superare il modello “fantozziano” dell’ufficio-fabbrica, ma non è chiaro come esse possano trovare rispondenza nel lavoro del giornalista, che, fatto salvo un numero alquanto ristretto di casi, si troverà piuttosto di fronte a un aumento delle spese, senza poter contare almeno in parte sull’infrastruttura della redazione, e non potrà “per statuto” pensare di ridurre le spese per mobilità. Lato azienda, tralasciando la questione dei costi fissi e salutando invece con favore la possibilità di integrazione sociale ed espansione geografica, suscitano perplessità due degli “indicatori di successo” presentati.
Anzitutto, l’aumento della produttività. Nella misura in cui questo indicatore è legato a una modalità di lavoro fatta di to-do lists giornaliere e obiettivi settimanali chiaramente stabiliti e concordati con il proprio datore di lavoro, la sua applicabilità al settore dell’informazione, che richiede la già citata flessibilità lavorativa proprio in funzione della sua stretta sintonia con ciò che accade nel mondo, configura un tipo di “smartness” decisamente differente, forse incompatibile con la pratica giornalistica. Meno evidente è la criticità insita nella riduzione della micro-conflittualità. Essa, tuttavia, non solo rimanda alla più ampia dimensione della socialità sul posto di lavoro, oltremodo necessaria specie per le professioni intellettuali, ma è in qualche modo connaturata alla redazione di un’opera collettiva come quella informativa. Se è vero che il datore di lavoro può verificare la produttività del giornalista attraverso la qualità del pezzo una volta consegnato, è altrettanto vero che sembra assai pericoloso ignorare tanto la fase precedente la scrittura del pezzo – la decisione stessa di trattare un certo tema, il punto di vista da adottare, il ruolo da dare al singolo pezzo entro l’economia del quotidiano, dell’edizione del telegiornale, della copertura informativa della testata online – quanto quella successiva. È davvero utile privare la pratica giornalistica della classica scena del caporedattore che redarguisce in modo più o meno teatrale il neoassunto “invitandolo” a riscrivere il pezzo appena consegnato? Questa e altre dinamiche redazionali fondate in fin dei conti sulla conflittualità, così come sulla funzionalità di una rigida divisione in ruoli, sono davvero separabili senza nocumento dalla professionalità giornalistica?
La questione è al tempo stesso molto semplice nella sua formulazione e molto complicata nella sua messa in pratica. Occorre considerare, in generale, ma in particolar modo per le professioni intellettuali e massimamente per quella giornalistica, la specificità del lavoro, la misura in cui esso è già “smart”, rifuggendo da modelli applicabili a ogni realtà professionale. Richiamando l’ultima dimensione individuata da Albano, Parisi e Tirabeni per “Cambio”, quella che meno indugia sugli aspetti critici dello smart working e più si concentra sulle sue conseguenze positive, è evidente che non tutti i programmi di coinvolgimento attivo del lavoratore finalizzati alla creazione di occasioni di ricostruzione del collettivo di lavoro sono applicabili al giornalismo. Tuttavia, alcune definizioni appaiono particolarmente adatte a definire pratiche di “smartizzazione” del lavoro giornalistico: tra queste, la capacità di fab lab e coworking spaces di aiutare “a capire come i lavoratori che operano individualmente in un contesto remoto rispetto all’organizzazione di riferimento principale (al di là del rapporto di lavoro, dipendente o meno), e che hanno la possibilità di spostarsi e usare in modo flessibile il tempo, tendano a costruirsi fuori dalle mura domestiche ambienti di lavoro nei quali oltre ad essere disponibili postazioni e strumenti per il lavoro e per le pause di relax, circolano informazioni utili di vario genere: per la costruzione di nuove competenze professionali, per la ricerca di nuove opportunità di impiego, per la formazione di sentimenti di appartenenza a un collettivo” (pp. 69-70).
*Christian Ruggiero è Professore Associato in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all'Università la Sapienza di Roma.