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Associazioni 19 Dic 2011

Reagire alle condizioni capestro imposte all’Inpgi e lo “scippo” del nostro patrimonio

La manovra di austerità predisposta dal Governo Monti ha inevitabilmente suscitato preoccupazioni in ogni strato sociale, specialmente in quelli economicamente più deboli. Qualche correzione è stata compiuta, ma molte sono ancora le perplessità e i timori.

La manovra di austerità predisposta dal Governo Monti ha inevitabilmente suscitato preoccupazioni in ogni strato sociale, specialmente in quelli economicamente più deboli. Qualche correzione è stata compiuta, ma molte sono ancora le perplessità e i timori.

Le categorie più disagiate (ad esempio i pensionati con modesto reddito, hanno ovviamente il diritto di protestare con più forza e con più ragioni, e di essere di conseguenza ascoltati con priorità affinchè i provvedimenti nei loro confronti si attenuino: come ad esempio è fortunatamente accaduto – dopo l’impegno dei Sindacati confederali – con l’aggiustamento della rivalutazione delle pensioni fino a 1.400 euro lordi.

Una questione di priorità dunque, che rappresenta una innegabile giustizia sociale. Ma anche altre categorie, meno disagiate, hanno il diritto di indicare la irragionevolezza e il pericolo che la manovra sta per provocare, ingiustamente, a loro danno.

Entrare in questo campo ovviamente è rischioso. Perché è notevole il pericolo di essere indicati (e non soltanto da chi ha il maggior interesse, cioè dagli Autori della manovra) come degli irresponsabili che si rifiutano di rinunciare a privilegi. Anche la categoria dei giornalisti può correre questo rischio nel mentre protesta per le incredibili misure contenute nella manovra di riforma previdenziale, che colpisce in modo pesantissimo l’Inpgi, il nostro Ente di previdenza, privatizzato 17 anni fa, assieme agli Enti che raccolgono altre categorie professionali, in forza dell’emanazione del decreto legislativo 509/94.

Di conseguenza è indispensabile prioritariamente spiegare perché si protesta, indicando quella che è ritenuta l’irragionevolezza delle misure decise, e sulle quali il nuovo ministro del Lavoro ha rifiutato ogni confronto. Spiegare dunque. Innanzitutto affinché la nostra categoria sciolga eventuali dubbi al proprio interno. E successivamente per illustrare il motivo dell’insoddisfazione – e dell’indignazione – ai nostri concittadini. Tutto ciò per non cadere nella trappola che già sta per svilupparsi e attraverso la quale qualche interessato “esperto” comincia a sussurrare “Anche voi siete una casta, che non vuole rinunciare ai privilegi”.

Vediamo dunque quali sono questi nostri “privilegi”.

(1) Il privilegio di un Ente che ha ricevuto dallo Stato l’incarico di provvedere innanzitutto, ma non solo, al trattamento previdenziale (le pensioni) senza però poter contare su contributi dello Stato. Un Istituto obbligato a dare garanzie incontrovertibili non soltanto sulla stabilità del presente, ma soprattutto su quella degli anni futuri, attraverso la presentazione di bilanci attuariali redatti da esperti di fiducia del Ministero del Lavoro, i quali possano garantire, e dimostrare, che la stabilità finanziaria non si limita al presente, ma è assicurata senza possibilità di imbrogli per i successivi trent’anni.

Una garanzia trentennale, sotto il diretto e costante controllo del Ministero del Lavoro, non è poca cosa. Ebbene, l’Inpgi la garantisce. E lo ha fatto con tempestività, quando si è reso necessario, con manovre di aggiustamento l’ultima delle quali, conclusa di recente, ha condotto a tre provvedimenti: (a) un aumento contributivo di tre punti che si svilupperà in tre rate nei prossimi tre anni e che sarà a carico delle Aziende editoriali, le quali oggi a titolo previdenziale corrispondono quattro punti percentuali in meno rispetto a quanto devono all’Inps per qualsiasi altro dipendente non giornalista; (b) aumento graduale a 65 anni dell’età pensionabile delle colleghe giornaliste; (c) sgravi contributivi per le aziende (riduzione del costo del lavoro del sessanta per cento) le quali assumano giornalisti a tempo indeterminato.

(2) Il secondo “privilegio” del nostro Ente previdenziale è rappresentato da un patrimonio, mobiliare e immobiliare, di circa 2,5 miliardi di euro, costituito con rigore negli anni, al fine di consolidare la sicurezza da noi dovuta allo Stato. Con lo scopo quindi di garantire concretamente che, pur in presenza di una eventuale momentanea situazione di difficoltà, le riserve continueranno a garantire che nessuna richiesta di aiuto sarà rivolta alla previdenza pubblica.

(3) Il terzo privilegio del nostro Inpgi è rappresentato dalla totale assunzione dei costi derivanti dagli stati di crisi delle aziende che espellono decine di colleghi, un privilegio che si traduce nell’assumersi l’onere dell’assistenza economica ai giornalisti cassintegrati e disoccupati, espulsi dalle aziende in numero purtroppo sempre più alto, a causa di una crisi che non accenna a regredire. Un costo che, in quasi tutti i casi, si traduce inoltre nel riconoscimento, a chi è espulso dalle aziende, di cinque annualità di contributi figurativi, secondo quanto la legge prevede.

Ma è indispensabile anche sottolineare come il ruolo dell’Inpgi vada oltre l’aspetto materiale e riguardi anche da vicino l’indipendenza professionale della nostra categoria. Indipendenza: una parola impegnativa, e anche rischiosa. Perché si corre il pericolo di essere accusati di voler nascondere un privilegio dietro un concetto nobile. Ma l’indipendenza, da ogni potere, economico o politico, è una scelta che richiede una buona dose di coraggio e che va aiutata a sopravvivere, specie in un momento come quello attuale, in cui il lavoro assume facilmente i caratteri della precarietà.

E a tutti quei colleghi (non sono pochi) che non rinunciano ad essere testimoni della verità dei fatti, a criticare se necessario con argomenti veri e concreti ogni potere di questo Paese, ad essere insomma testimoni coraggiosi della nostra realtà quotidiana, a tutti costoro l’Inpgi fornisce un incontestabile aiuto nel proseguire in questo compito a volte non privo di rischi, quale – ad esempio – la perdita del posto di lavoro.

Senza addentrarsi in tecnicismi è opportuno sottolineare due differenze importanti nel trattamento Inpgi rispetto a quello assicurato dall’Inps. Indennità di cassa integrazione – L’onere è tutto a carico del bilancio Inpgi, senza alcuna spesa per le aziende o per lo Stato e la corresponsione dell’indennità è senza ritardi, immediata, su garanzia della Fnsi. Mentre di norma può esistere un “vuoto temporale”, anche non indifferente da parte dell’Inps, a causa delle necessità burocratiche connesse all’arrivo del decreto ministeriale. Indennità di disoccupazione: il riconoscimento del diritto riguarda anche il caso di dimissioni presentate dal giornalista all’azienda, diritto che non è invece riconosciuto dall’Inps. E anche questo non è un privilegio, bensì rappresenta uno stimolo all’indipendenza e alla libera scelta professionale del giornalista, qualora egli, nel caso di cambio di proprietà dell’azienda giornalistica o nel mutamento di direzione, non condivida più la linea politica dell’azienda stessa.

Quella fin qui descritta corrisponde all’assoluta realtà del nostro Inpgi. Su questa verità la nostra categoria può affrontare qualsiasi confronto senza il timore di esser accusata di voler perpetuare “privilegi di casta”.

Ma vediamo quali sono i rischi derivanti dal decreto del Governo Monti, che la manovra prevede siano imposti a tutte le Casse privatizzate.

      A) - Obbligo di garantire attraverso i bilanci tecnici non più trent’anni, bensì mezzo secolo di equilibrio tra entrate contributive e prestazioni previdenziali: un improvviso aumento quindi di oltre il 66 per cento. E tutto ciò alla svelta, entro tre mesi (il prossimo 31 marzo). Un termine che successivamente è stato spostato al 31 giugno, unica concessione ottenuta grazie ad un emendamento, accolto dalla Commissione Bilancio del Senato, presentato dai parlamentari Marinello e Lo Presti.

      B) - Ma il colpo più duro, che dà la chiara sensazione che all’Inpgi e a tutte le altre Casse si richieda la classica “mission impossible”, riguarda un’altra e più dura condizione: l’obbligo di provare la stabilità per mezzo secolo e questo senza poter utilizzare in caso di necessità i patrimoni che rappresentano la riserva degli Enti privatizzati, costituiti proprio per affrontare eventuali momenti di difficoltà. L’Inpgi, per quanto lo riguarda, in anni di attenta gestione è riuscito a costituire una riserva di 2,5 miliardi di euro, tra valori mobiliari e immobiliari. L’accumulo di questa consistente riserva era ben noto ai Ministeri vigilanti che ne avevano apprezzato la solidità in vista, appunto, di un parziale impiego qualora fosse sopraggiunto un momento di difficoltà. Ma oggi assistiamo ad un improvviso cambiamento di direttiva.

Qual è la ragione di questa condizione capestro, che il decreto del Governo Monti vuole imporre all’Inpgi e alle altre Casse privatizzate? Già è pesantissima l’imposizione di dover garantire una sostenibilità aumentata da trenta a cinquant’anni, ma perchè il patrimonio di riserva dovrebbe all’improvviso perdere la sua originaria funzione, e diventare trasparente? Questo divieto rappresenta una illogicità così macroscopica che spalancala strada ad una preoccupazione ancor più pesante: e cioè che quel patrimonio di cui si vuole vietare l’utilizzo nella già complicata dimostrazione attuariale verso il mezzo secolo di sostenibilità, non venga ormai più considerato di proprietà della Cassa che lo ha costituito: in pratica, un progetto di prelievo forzoso.

C) - Esaminiamo infine il terzo punto della manovra che ci riguarda. Nel caso non si riesca a dimostrare la sostenibilità a mezzo secolo (esito non improbabile visto il divieto di utilizzare in alcuni passaggi il patrimonio di riserva) l’Inpgi e tutte le altre Casse privatizzate sarebbero obbligate ad adottare per il calcolo delle pensioni il sistema contributivo utilizzato dall’Inps, e sarebbe inoltre imposto ai pensionati delle stesse Casse un “versamento di solidarietà”pari all’uno per cento dell’ammontare delle pensioni del 2012 e del 2013. Cinquecento euro l’anno per una pensione di 50.000 lordi annui, 600 per una rendita di 60.000, e così via.

Una misura non certo leggera se sommata alle altre misure generali che attendono tutti i cittadini di questo Paese, ma se quel denaro servirà davvero ad accrescere l’aiuto nei confronti di chi ha meno, certamente nessuno salirà sulle barricate.

Quanto all’applicazione forzosa del sistema contributivo, si tratta di una proposta (è dimostrabile con le tabelle comparative preparate dagli esperti) la quale andrebbe a premiare soltanto gli alti stipendi e a deprimere invece le rendite pensionistiche di chi avrà guadagnato di meno. Tale realtà deriva dalla modifica introdotta dall’Inpgi nel 2006, della quale il Ministero del Lavoro è ben consapevole perché gli fu presentata doverosamente per la necessaria approvazione (puntualmente accordata). Una modifica che ha introdotto nel calcolo della pensione un sistema retributivo corretto, il quale prevede l’applicazione di aliquote di rendimento in forma graduale e decrescente, le quali favoriscono coloro che abbiano una retribuzione meno ricca, lasciando inalterate le entrate contributive correnti. C’è da augurarsi quindi che, nell’interesse di chi ha meno, l’attuale sistema retributivo corretto non venga comunque abbandonato.

La necessità del confronto, di mettere ben in luce la stabilità raggiunta dall’Ente, di sottolineare come l’Inpgi sia solido e contemporaneamente si sostituisca allo Stato nell’assumersi i costi dell’assistenza sociale agli iscritti, in cassa integrazione o in disoccupazione, è stata già affrontata nei giorni scorsi dal Presidente dell’Inpgi, il collega Andrea Camporese, che è anche Presidente dell’Adepp, l’organismo che raccoglie tutte le Casse privatizzate. E in tale veste Camporese ha già fatto rilevare in numerosi contatti istituzionali e politici, nonché nella Commissione Bilancio, alla Camera e al Senato, quanto l’Inpgi abbia concretamente dimostrato la sua stabilità e quanto le misure annunciate dal Governo Monti siano ingiustificate. Una realtà garantita dai fatti, che tuttavia non è finora riuscita a scalfire i propositi dell’attuale ministro del Lavoro, e dell’Esecutivo Monti tanto che – come è stato già precisato – si è unicamente ottenuto, per ora, lo spostamento di tre mesi (al 30 giugno) del termine entro il quale il nostro Ente dovrebbe dimostrare la sua solidità da qui a 50 anni.

E dunque, nella consapevolezza che la nostra categoria non è costituita da privilegiati, e che al contrario ha saputo realizzare una previdenza solida, attraverso varie riforme, tutte condivise dal Controllore ministeriale, resta la domanda: se non cambierà l’impostazione di questo confronto, (che è stato finora un “non confronto”) è opportuno subire quella che appare con evidenza un’ingiustizia (l’esproprio di fatto della riserva, e l’imposizione improvvisa del mezzo secolo di stabilità) oppure è giustificabile e doveroso reagire?

Non sono pochi coloro che propendono per la seconda ipotesi. Anche perché ritengono che subire senza reagire rischierebbe di far passare il sospetto che davvero i giornalisti siano una casta di privilegiati e abbiano da nascondere chissà quali inconfessabili privilegi. E poiché non siamo né casta né privilegiati, molti di noi ritengono che si debba gridarlo forte, sostenendo le nostre ragioni con le azioni di protesta che l’Ordinamento della nostra Repubblica prevede.

Ciò naturalmente è compito della Federazione della Stampa, il nostro Sindacato unitario, cui spetta assumere, d’intesa con l’Inpgi e con gli altri Enti di categoria, Ordine nazionale, Casagit e Fondo integrativo, le opportune iniziative a tutela, ancor prima degli interessi di categoria, della nostra immagine e della nostra dignità di giornalisti

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