Il Risorgimento e l’Unità d’Italia ci sarebbero stati senza la libertà di stampa? Probabilmente no. Dopo il congresso di Vienna, nel 1815, il nuovo assetto che le grandi potenze avevano dato all’Europa si basava anche su una sostanziale limitazione della libertà di stampa in tutti gli Stati, compresi quelli che frammentavano la nostra penisola. Violando queste limitazioni, un po’ dappertutto fiorirono iniziative illegali di stampa clandestina che favorivano la circolazione delle idee.
Soprattutto grazie alla stampa l’aspirazione a liberare le terre del nord d’Italia dall’occupazione dello straniero e l’anelito a fare finalmente dell’Italia una nazione e una patria e non più, come l’aveva definita Metternik “un’espressione geografica”, divennero patrimonio condiviso dalla moltitudine degli italiani. Il messaggio mazziniano per l’indipendenza, l’unità e la repubblica non avrebbe avuto eco se Mazzini non avesse speso la sua vita a fondare giornali e a scrivere ogni giorno un numero infinito di articoli sulla stampa di mezza Europa a sostegno delle rivendicazioni dell’italianità della penisola. Da L’Apostolato Popolare, pubblicato tra il novembre del 1840 e il febbraio del 1843 e sul quale apparvero i primi capitoli de “I doveri dell’uomo”, a il Precursore, giornale della rigenerazione italiana, diffuso gratuitamente dall’ottobre del 1836, a il Tribuno, primo esempio di giornale popolare, uscito per la prima volta nel gennaio del 1883 a Lugano, all’Italia del Popolo, pubblicato per la prima volta a Milano nel maggio del 1848 e ripreso negli anni successivi a testimonianza di una radicata tradizione repubblicana, numerosi furono i giornali che Mazzini creò per fare del Risorgimento un moto popolare ed un’idea diffusa nel sentimento degli italiani.
Non è certo casuale che proprio nell’anno “dei portenti” la libertà di stampa abbia trovato la sua più alta legittimazione legislativa. Il 5 aprile del 1848 il re di Sardegna, Carlo Alberto, emanava l’editto sulla stampa in base al principio, come si legge in apertura del provvedimento, che “la libertà di stampa è necessaria guarentigia delle istituzioni di un bene ordinato governo rappresentativo, non meno che precipuo istromento d’ogni estesa comunicazione di utili pensieri”, ragion per cui essa doveva “essere mantenuta e protetta in quel modo che meglio valga ad assicurarne i salutari effetti”. L’anno successivo, a conclusione dell’eroica esperienza della repubblica romana, il Parlamento della Roma repubblicana approvava una costituzione che ancora oggi rimane di esempio a tutto il mondo per i suoi contenuti di modernità e che stabiliva solennemente tra i suoi principi la assoluta libertà della manifestazione del pensiero di tutti i cittadini uguali e liberi. Quella costituzione, come è noto, non entrò praticamente mai in vigore, cancellata dall’intervento delle truppe francesi che ripristinarono il potere temporale del papato. Ma l’editto Albertino oltre che il Piemonte sabaudo finì per inseminare tutta la penisola man mano che il regno di Sardegna, grazie alla lungimirante visione politica di Cavour si estendeva nella penisola e costruiva il regno d’Italia.
Se la libertà di stampa è stata il carburante che ha favorito il cammino del nostro processo risorgimentale, non possiamo trascurare che essa ha accompagnato anche tutte le fasi successive che hanno consentito all’Italia di diventare una nazione e agli italiani di diventare un popolo. La crescita civile, economica, politica dell’Italia verso assetti sempre più adeguati allo sviluppo dei tempi non sarebbe comprensibile se non tenesse conto di questo elemento fondamentale. Il trasferimento della capitale da Torino a Firenze e da Firenze a Roma, quando finalmente nel 1870 con la breccia di Porta Pia si raggiungeva l’obiettivo più significativo del cammino unitario, fu sempre accompagnato dal trasferimento e dalla nascita di iniziative giornalistiche a sottolineare il ruolo ineludibile assunto dalla stampa. Come narrano le cronache di quei giorni subito dietro i bersaglieri entrarono in Roma, finalmente capitale di Italia, i carri con i macchinari dell’editore Sonzogno che veniva a Roma per fondare nuovi giornali.
Il giornalismo fiorito nella libertà di stampa garantita dall’editto Albertino, pur nelle variegate posizioni, anzi proprio grazie ad esse, è stato in questi 150 anni il filo rosso della nostra storia, scrivendo pagine fondamentali a difesa della crescita civile del Paese. Basterà ricordare gli avvenimenti di Milano sul finire del secolo XIX quando interpretando una spontanea rivolta popolare come l’inizio di una rivoluzione organizzata il potere monarchico tentò di avviarsi sul sentiero dell’autoritarismo partendo da una soppressione proprio della libertà di stampa. Dopo le cannonate milanesi di Bava Beccaris e la proclamazione dello stato d’assedio in molte città italiane fu sospesa la pubblicazione di numerosi giornali e furono arrestati i redattori dell’ Italia del popolo, quotidiano di ispirazione repubblicana, de Il Secolo, organo del radicalismo italiano e dell’ Avanti!. Nel pomeriggio del 7 maggio del 1898 numerosi agenti in borghese invasero la redazione dell’Italia del Popolo, sequestrarono carte e documenti, trascinarono in questura, formalizzandone l’arresto, tutti i giornalisti presenti in redazione, dal direttore Gustavo Chiesi, che aveva sostituito l’anno precedente alla guida del giornale Dario Papa, scomparso prematuramente, a Bortolo Federici, Ulisse Cermenati, Arnaldo Seneci, ai quali si aggiunse l’onorevole Luigi De Andreis arrivato in redazione mentre erano in atto le perquisizioni. Lo stesso Presidente del Consiglio, Di Rudinì, confermò telegraficamente a un dubbioso prefetto l’ordine di arresto del parlamentare repubblicano.
Si avviò quello che fu definito il processo dei giornalisti, destinato, però, a verificare come non ci fosse mai stato nessun tentativo di rivoluzione organizzata. Ma gli avvenimenti di Milano furono il pretesto per presentare alla Camera provvedimenti di legge che di fatto volevano cancellare la libertà di stampa in Italia. Sia il governo Di Rudinì che il successivo governo Pelloux si accanirono su questa linea che, se vittoriosa, avrebbe riportato l’Italia indietro di decenni. Grazie però alla mobilitazione di quasi tutto il mondo giornalistico, delle associazioni di stampa allora esistenti e della resistenza in Parlamento delle forze democratiche repubblicane e socialiste, che inventarono per l’occasione l’ostruzionismo parlamentare e il filibustering, quei provvedimenti non passarono mai. Da Salvatore Barzilai a Roberto Mirabelli a Giovanni Bovio a Edoardo Pantano, tutti i repubblicani si schierarono insieme a socialisti e radicali per bloccare quel tentativo autoritario. Barzilai, che negli anni successivi avrebbe assunto la presidenza dell’Associazione della Stampa Periodica e della Federazione Nazionale della Stampa, definì”le limitazioni proposte dal progetto ministeriale” “un vero sacrilegio contro la libertà” e accusò il Governo che si presentava “come tutore della libertà contra la licenza” di “attentare alla essenza della libertà stessa”. Grazie anche al loro contributo quei provvedimenti non divennero mai legge mentre il nuovo secolo si apriva all’insegna del riformismo giolittiano.
Purtroppo, quel tentativo che non riuscì a Di Rudinì e a Pelloux sarebbe stato realizzato 25 anni dopo l’inizio del nuovo secolo dal governo Mussolini. La dittatura in Italia divenne regime quando con le “leggi fascistissime” le libertà di stampa e di pensiero e di associazione furono di colpo cancellate da un parlamento che grazie ad una legge elettorale maggioritaria e truffaldina era stato assoggettato completamente al potere esecutivo.
Sin dal suo insediamento alla guida del Governo nell’ottobre del 1922 Mussolini si era posto l’obiettivo di limitare il diritto alla libertà di stampa, ma la tenace opposizione delle forze democratiche, del giornalismo italiano, delle associazioni di stampa e delle Federazione Nazionale della Stampa presieduta da Salvatore Barzilai erano riuscite a bloccarne e a rimandarne la realizzazione, fino a quando non furono costrette a soccombere.
Gli anni del fascismo sono stati una buia parentesi nella vita unitaria dell’Italia, soprattutto perché furono anni nei quali non era più possibile stampare e diffondere un giornale che non fosse allineato sulla linea del Governo. La voce dell’Italia risorgimentale , dei suoi valori e delle sue aspirazioni era ormai affidata a fogli clandestini o alla stampa italiana all’estero, in particolare a quella dei partiti politici ricostituitesi in Francia nell’ambito della Concentrazione Antifascista. Con la rovinosa caduta del fascismo travolto da una guerra devastante, l’Italia riprese il suo cammino nel solco tracciato dai padri del Risorgimento, creando finalmente quella Repubblica voluta e auspicata da Mazzini e dandosi con la Costituzione le fondamenta di una moderna democrazia. Tra i punti salienti della Carta Costituzionale vi era e vi è quell’articolo 21 che sancisce la libertà di stampa e di espressione in capo a tutti i cittadini italiani. La libertà di stampa è stata la matrice del nostro Risorgimento e il lievito che ha consentito al nostro Paese di crescere. Ma la storia ci insegna che questo bene prezioso non può mai considerarsi definitivamente acquisito e che va, invece, giorno dopo giorno strenuamente difeso.
Giancarlo Tartaglia
Direttore Fnsi