«Luciana, io continuo». Cosi Chiara Cazzaniga, la giovane e coraggiosa giornalista di "Chi l'ha visto", si è rivolta a Luciana Alpi l'altro ieri a Perugia. Erano passati pochi minuti da quando il Presidente del collegio giudicante aveva dichiarato innocente - dopo oltre sedici anni passati in carcere! - Hashi Omar Hassan, condannato ingiustamente per l'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in seguito alla falsa testimonianza di Ahmed Ali Rage, detto Gelle.
«Io continuo», ha detto Chiara a Luciana, e intendeva dire di voler continuare a cercare verità e giustizia rispetto a quanto accadde davvero quel 20 marzo 1994, quando Ilaria e Miran furono massacrati per avere coraggiosamente, da giornalisti, scavato su sporchi traffici di rifiuti tossici e armi tra l'Italia e la Somalia, all'ombra della cooperazione internazionale, con la complicità di pezzi corrotti e conniventi degli apparati dello Stato italiano del tempo. Fece comodo, allora, trovare un Gelle, che un po' per soldi e un po' per minacce (italiane anche se mai nessuno gli ha chiesto conto davvero di tutto questo) indicò in Hashi il «colpevole» dell'aggressione per rapina e dell'assassinio dei due giornalisti italiani. È stata Chiara, è stata "Chi l'ha visto" di Federica Sciarelli, collega e amica di Ilaria al TG3 a trovare Gelle, ad intervistarlo, a fargli confessare la falsa testimonianza che ha consentito di aprire e chiudere con il riconoscimento dell'innocenza di Hashi il processo di revisione conclusosi l'altro ieri presso la Corte d'Appello di Perugia. Chiara ha sentito il bisogno di dire quelle parole alla mamma di Ilaria perché Luciana è stanca. È stanca e provata. Non sta benissimo in salute e non ha più con sé il suo Giorgio, con cui ha condiviso una vita lunga e piena ma irrimediabilmente, crudelmente segnata dalla perdita di Ilaria. Insieme hanno vissuto, insieme hanno sofferto e insieme hanno combattuto, nel nome di questa loro figlia che non c'era più ma della cui presenza e del cui ricordo è piena la loro casa romana di Vigna Clara.
È stanca, Luciana, anche se ha ancora un filo di ferro dentro. È partita alle 5.30 da Roma l'altro giorno, insieme con il suo avvocato D'Amati che da sempre l'assiste, per essere presente a Perugia all’ultima udienza e alla sentenza. Negli anni, era stata diverse volte a trovare in carcere Hashi Omar. Sapeva che era recluso ingiustamente. Sapeva che non era stato lui ad ammazzare Ilaria. C'è voluto il coraggio e la tenacia di una giovane giornalista per far riaprire il caso, revisionare il processo, fare giustizia. Ed è stato commovente l'abbraccio tra la signora Alpi e Hashi -ora finalmente e pienamente uomo libero - al termine della sentenza.
Dai servizi di “Chi l'ha visto" a quando la rogatoria internazionale ha avuto esito sono passati tanti mesi. Troppi. Noi stessi siamo stati testimoni delle reiterate richieste di notizie, accelerazioni rivolte alla Procura di Roma da parte della famiglia Alpi e dei suoi legali. Perfino cariche istituzionali e governative hanno dovuto cercare di adoperarsi per rendere più rapide queste procedure. A un certo punto sembrava che la polizia inglese non «riuscisse» a trovare questo Gelle, che pure era stato trovato e intervistato da una giornalista Italiana, del quale chi doveva averlo era stato fornito perfino del numero di telefono, del nome dell'azienda per cui lavora a qualche centinaio di chilometri da Londra!
Anche per questo Luciana è stanca e si sente sola. Perché se è vero che il processo di Perugia ha liberato un uomo dal peso di una falsa, terribile accusa e da una barbara, ingiusta detenzione, è altrettanto vero che rimane tutto intero il peso di una domanda: perché non si è trovata la verità sull'uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Perché i primi passi dell'inchiesta furono fatti con colpevole approssimazione? Perché si è dato credito a personaggi di dubbia caratura come Gelle? Perché non si è riuscito in ventidue anni a squarciare il velo su troppi omissis, depistaggi, coperture che pezzi dello Stato hanno fornito a faccendieri, presunti «imprenditori» coinvolti in traffici di rifiuti tossici e armi su un duplice omicidio avvenuto proprio negli anni in cui questo Paese era in piena Tangentopoli? Perché anche il lavoro della Commissione Parlamentare d'inchiesta, che pure ha conosciuto contributi tenaci e valorosi dei rappresentanti delle forze di sinistra, ha conosciuto ostacoli, opacità e muri di gomma? Sono interrogativi che devono avere risposta che potrà venire dal nuovo impulso che l'inchiesta, in capo alla Procura di Roma, dovrà necessariamente conoscere dopo Perugia. Si, Luciana è stanca per questo si chiede se avrà ancora la forza di «ripartire da capo», combattere in nome di quella figlia che si era laureata presto e bene, che era stata tre anni in Egitto, che conosceva quattro lingue compreso l'arabo, che aveva dentro il fuoco della passione del giornalismo d'inchiesta, che arrivò prima ad un concorso alla RAI.
Ho conosciuto Luciana ormai molti anni fa, e l'opportunità me l'ha data il mio impegno a fianco di Walter Veltroni, che per lunghi anni, in tutti i ruoli pubblici che ha avuto, si è battuto per la verità e la giustizia sulla fine di Ilaria e Miran e sui tanti misteri che hanno avvolto l'Italia.
In questi mesi l'ho sentita spesso e mi è capitato di raccogliere la sua stanchezza, ma anche la sua giusta e motivata amarezza. La guardavo durante le ore del processo di Perugia, le ero seduto vicino. E l'ammiravo per quella sua fortissima fragilità, per quella sua partecipazione umana e civile mentre inseguiva i suoi pensieri. Per questo vorrei dirle che non è sola. Che Chiara le ha detto: «lo continuo».
Che gli amici della Federazione Nazionale della Stampa, anche se non c'è più Santo Della Volpe, ci sono eccome. Che anche tanti colleghi parlamentari - non solo del PD - sono disposti a unire la propria voce e le proprie forze a quelle di giornali come l'Unità, associazioni, tante persone perbene che stanno in giro per l'Italia e che, come mi diceva, la fanno commuovere quando la invitano ad inaugurare una scuola intitolata ad Ilaria, dove dei ragazzini oggi si chiederanno «perché fu uccisa?» e dove domani altri ragazzi potranno, dovranno avere questa risposta. Che è dovuta non solo per rispetto della memoria di due giornalisti italiani uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ma per il rispetto che un Paese deve avere di se stesso.
l'Unità del 21 ottobre 2016