«Preoccupa il sempre più frequente ricorso da parte delle Procure allo strumento dei decreti penali di condanna emessi a carico di giornalisti per definire i casi relativi a presunte diffamazioni a mezzo stampa con l'applicazione di pene pecuniarie». Il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, richiama l'attenzione dei colleghi sulla procedura semplificata, regolata dagli articoli 459 e 464 del Codice di procedura penale, utilizzata più che in passato nei casi in cui la pubblica accusa ritenga che sussistano sufficienti prove della responsabilità dell'imputato.
Questa procedura, la cui principale finalità è di accelerare i tempi della giustizia, rischia infatti - afferma il Cnog - di comprimere la possibilità di difesa dei giornalisti: è vero che il decreto può essere opposto, ma l'imputato si troverà direttamente a dibattimento senza il filtro dell'udienza preliminare.
«Invito i colleghi destinatari di un decreto penale di condanna a non sottovalutare la portata del provvedimento, anche se la pena pecuniaria stabilita dovesse risultare non particolarmente elevata: il pagamento della somma indicata - sottolinea ancora Bartoli - costituisce l'accettazione di una condanna in sede penale. Il decreto non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, ma l'esistenza di una condanna penale può avere conseguenze nell'eventuale successiva azione per il risarcimento del danno da parte del diffamato».
E Bartoli aggiunge un aspetto: «La difesa verte, di solito, sul riconoscimento del diritto di cronaca o di critica e dunque sull'accertamento della verità dei fatti. Il ricorso al decreto penale di condanna, tuttavia, è molto dannoso per l'indagato perchè il pm non svolge indagini sul punto e l'interessato non è in grado di fornire le prove necessarie se non al dibattimento, con dispendio di tempo ed energie ed affrontando spese più ingenti». (Ansa)