Il “nostro” Corrado Alvaro diceva che “la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. Personalmente questo dubbio non l’ho mai avuto. Non solo: ritengo che il mondo dell’informazione, di cui mi onoro di fare parte, debba concentrare tutte le proprie forze su quella onestà tanto cara ad Alvaro, sulla legalità e, soprattutto, sull’etica. Tutti principi, a quanto pare, disattesi da “Il Quotidiano della Calabria” che, pur professandoli con paginoni d’inchiostro, li smentisce con comportamenti incoerenti e ingiustificabili.
Vado velocemente al dunque. Collaboro con il suddetto giornale sin dal luglio del 2010. Ho sempre svolto la mia attività con passione e dedizione, apportando un contributo sia alle pagine della cronaca di Reggio, sia a quelle dello sport regionale. Nonostante abbia ricevuto solo una piccolissima parte dei compensi (forse ha più senso chiamarli rimborsi…) pattuiti come da contratto, ho continuato a prestare la mia opera, utilizzando a mie spese auto e telefono personali.
Paradossalmente, ho dovuto far fronte, assieme agli altri colleghi collaboratori, anche all’acquisto del giornale cartaceo, non avendo diritto neppure al download gratuito dal sito della copia digitale. Fin qui, tutte problematiche già risapute e più volte denunciate dal Sindacato Giornalisti della Calabria.
Ma l’episodio più grave e altamente inqualificabile è di questi giorni. Giunto alla determinazione di chiedere per iscritto le spettanze arretrate (ad oggi sono in credito di ben 23 mensilità su 30) attraverso l’ufficio legale del Sindacato Giornalisti della Calabria, mi sono visto – incredibilmente – interrompere la collaborazione con “Il Quotidiano” senza un giustificato motivo. Nello specifico, all’invio di un mio articolo per la pubblicazione, ho ricevuto come risposta una mail a firma del caposervizio sport Valter Leone con la quale mi veniva comunicato, su mandato dell’amministrazione, che “la collaborazione è interrotta”.
Un benservito di basso stile che, guarda caso, giunge nel momento in cui non ho fatto altro che invocare un mio sacrosanto diritto, quello di chiedere la corresponsione dei compensi per le prestazioni effettuate. Nel contempo, ho inviato una mail all’amministrazione della Finedit (società editrice del giornale) chiedendo di essere messo a conoscenza dei motivi che hanno portato all’interruzione del rapporto collaborativo.
La risposta a firma del dott. Alessandro Oliva ha chiaramente eluso la mia domanda, fornendo – solo – spiegazioni di ordine procedurale. Da ciò si intuisce che alla mia legittima richiesta di pagamento degli arretrati, il giornale ha ritenuto di adottare un provvedimento “punitivo”.
E’ questa la legalità per la quale “Il Quotidiano” si batte da sempre? E’ questa l’applicazione concreta di quei valori espressi nel corso della manifestazione del 25 settembre 2010 a Reggio Calabria? Si può ritenere questo un comportamento etico?
Insomma, io non dovevo far valere i miei diritti. Dovevo subire in silenzio.
Mi fermo qui. A me non resta altro che alzare la testa. La dignità non è un bene negoziabile!
Sergio Notaro
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LA STORIA DEI TANTI, TROPPI, SERGIO NOTARO CHE NON CHIEDONO PRIVILEGI DI SORTA, MA IL DIRITTO ALLA NORMALITÀ
UNO SCATTO DI DIGNITÀ IN DIFESA DELLA PROFESSIONE
Uno scatto di dignità in difesa della professione. Ecco cosa rappresenta l’inqualificabile storia che ha visto protagonista il giovane giornalista reggino Sergio Notaro che, nove giorni dopo aver rivendicato gli appena 1885 euro a lui dovuti per le collaborazioni prestate dal gennaio 2011 all’agosto 2012 e dal novembre 2012 al gennaio 2013, si è visto notificare l’interruzione della collaborazione con Il Quotidiano della Calabria.
L’amara denuncia di Sergio non ha bisogno di commenti. Di “opinionisti” da bar e venditori di fumo, i social network – e non solo – abbondano. Davanti a storie come questa non servono solidarietà, pacche sulle spalle o richieste di segnalazioni anonime. Servono azioni concrete a sostegno dei tanti, troppi, Sergio Notaro che non chiedono privilegi di sorta, ma il riconoscimento di un diritto – quello della retribuzione – che dovrebbe essere la naturale conseguenza dell’articolo 1 della Costituzione Italiana: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Attenzione: Il Quotidiano della Calabria non è un caso isolato. La mortificazione della dignità professionale è largamente diffusa, tant’è che, da anni, Fnsi-Sindacato Giornalisti della Calabria e Inpgi, con il supporto dell’Ufficio Legale del Sindacato Giornalisti della Calabria e dell’Ordine dei giornalisti della Calabria, sono quotidianamente impegnati ad assicurare consulenza e assistenza in una regione nella quale, purtroppo, a molti capita di scrivere duri articoli contro datori di lavoro senza scrupoli, che sfruttano e non pagano, senza rendersi conto che, forse, la condizione nella quale si trovano a operare è di gran lunga peggiore di quella denunciata nei loro pezzi.
Tanto è stato fatto – come dimostrano i numeri diffusi dal presidente nazionale dell’Inpgi, Andrea Camporese, e dal segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, il 9 febbraio dello scorso anno in occasione del convegno “Giornalisti: professione e previdenza garanzie di libertà”, tenutosi a Reggio Calabria, alla presenza del presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti, Giuseppe Soluri.
Nell’evidenziare “gli importanti numeri della Calabria”, passata dai 743 iscritti all’Inpgi al 13 febbraio 2008 ai 1330 attuali, grazie alla positiva attività degli istituti di categoria dei giornalisti (gli Uffici Sindacale e Legale del Sindacato Giornalisti della Calabria e il Servizio ispettivo dell’Inpgi), Camporese ha sottolineato che il numero degli iscritti comprende, tra gli altri, 642 iscritti alla Gestione principale (di cui 574 attivi e 68 pensionati) e 1026 alla Gestione separata (di cui 304 iscritti anche alla principale).
Il dato più significativo è, comunque, rappresentato dai dati relativi al quinquennio 2007 – 2011: 21 visite ispettive presso le seguenti tipologie di aziende: 3 presso aziende editrici di quotidiani, 1 presso service editoriali, 5 presso emittenti televisive, 1 presso aziende on line, 2 presso agenzie di stampa, 9 presso pubbliche amministrazioni.
Delle 21 aziende ispezionate, 14 (i 2/3 del totale) sono risultate irregolari. I relativi verbali hanno complessivamente comportato l’addebito dell’importo di 843mila euro a titolo di contributi dovuti in favore dell’Inpgi.
Gli accertamenti ispettivi hanno rilevato 44 rapporti di lavoro, formalmente qualificati a vario titolo come collaborazioni da lavoro autonomo, per i quali è stata invece accertata la natura di lavoro dipendente a tutti gli effetti.
Le ispezioni hanno rilevato, altresì, 18 rapporti di lavoro in cui il giornalista, benchè regolarmente assunto e adibito a mansioni giornalistiche, era stato formalmente inquadrato con qualifiche diverse (impiegato, addetto alla programmazione di trasmissioni radio-tv, speacker, grafico editoriale, operatore di ripresa tv, autore testi per programmi radio-tv, ecc.) con pagamento della contribuzione all’Inps, all’Enpals o all’Inpdap.
Per non parlare delle centinaia di vertenze positivamente concluse a favore dei colleghi non pagati, illegittimamente licenziati o trasferiti, e degli interventi – anche giudiziari – finalizzati a garantire a tutti i giornalisti pari opportunità, in un settore delicato come quello degli uffici stampa pubblici. Opportunità che possono essere garantite solo attraverso selezioni e concorsi, ampiamente e doverosamente pubblicizzati e non nascosti nelle pieghe di un albo pretorio o nei più inaccessibili link di un sito istituzionale.
Non ci stancheremo mai di ripetere, dunque, che il silenzio e la rassegnazione, oltre a non essere propri di una professione che ha nella testimonianza e nella denuncia la sua ragione di essere, non fanno altro che aggravare il senso di smarrimento dei numerosi giornalisti per i quali termini come preparazione e merito rappresentano solo il beffardo epilogo di un percorso di studi e di esperienze, a volte lungo e tormentato, che nessuno è disposto a prendere in considerazione e valorizzare. Ma, piuttosto e spesso, a calpestare nella dignità e nella professionalità.
Accettare di lavorare gratis o quasi equivale, infatti, a derogare al diritto di farsi pagare, accettando, invece, di sottostare all’umiliazione e al ricatto. Come può definirsi libero un giornalista pagato, ben che vada, pochi euro a pezzo e senza copertura previdenziale e assistenziale? Trovare un lavoro e mantenerlo, oggi più che mai, è impresa ardua, ma dire “no grazie” a chi ci chiede di lavorare gratis o per pochi spiccioli è un dovere civico al quale non possiamo e non dobbiamo sottrarci. Innanzitutto perché non facendosi pagare per mesi o, addirittura, per anni, è pressoché impossibile sperare che, un giorno, l’editore metta mano alla tasca.
Dunque, lo ribadiamo, la parola d’ordine non può che essere una sola: uno scatto di dignità in difesa della professione, perché senza qualità dell’informazione non esiste libertà di stampa.
Un dovere, quello di pretendere il giusto riconoscimento per un lavoro svolto, irrinunciabile per rispetto dei lettori, che pretendono un’informazione di qualità, possibile solo con adeguate condizioni retributive; per rispetto dei nostri colleghi che, a causa delle nostre prestazioni gratuite, vedono seriamente minacciati i loro posti di lavoro. Un dovere per guardare in faccia i nostri padri, le nostre mogli e i nostri figli, senza subire lo sguardo di commiserazione di chi pensa che quello del giornalista sia tutto tranne che un lavoro. Un semplice gesto per conciliare le romantiche ragioni del cuore con l’obbligo, non più derogabile, della ragione.
Carlo Parisi
segretario Sindacato Giornalisti della Calabria
vicesegretario nazionale Fnsi
Da http://www.giornalisticalabria.it dell’8 marzo 2013