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Lutto 30 Lug 2014

Addio a Fausto Ibba, firma storica de l'Unità

È morto all’alba a Roma, dopo una grave malattia, il nostro carissimo Fausto Ibba. Aveva ottantatré anni. Per decenni tra le firme più eminenti dell’Unità, è stato un compagno di lavoro esigente ma generoso, un uomo schivo e riservato, un esempio di rigore professionale e di forza morale. La direzione e la redazione del suo vecchio giornale, proprio nel giorno della sua chiusura, si stringono in queste ore così dolorose alla moglie Elka, ai figli Andrea e Alessandro, alla nipote Monica e a tutti i famigliari.... (Articolo di Marco Sappino da l’Unità del 30 luglio 2014)

È morto all’alba a Roma, dopo una grave malattia, il nostro carissimo Fausto Ibba. Aveva ottantatré anni. Per decenni tra le firme più eminenti dell’Unità, è stato un compagno di lavoro esigente ma generoso, un uomo schivo e riservato, un esempio di rigore professionale e di forza morale. La direzione e la redazione del suo vecchio giornale, proprio nel giorno della sua chiusura, si stringono in queste ore così dolorose alla moglie Elka, ai figli Andrea e Alessandro, alla nipote Monica e a tutti i famigliari.... (Articolo di Marco Sappino da l’Unità del 30 luglio 2014)

....La camera ardente si trova nel centro Antea, in piazza Santa Maria della Pietà, padiglione 22, orario di visita dalle 8 fino alle 18. La cerimonia funebre si terrà venerdì in forma strettamente privata. 
Se n’è andato un maestro, figura sempre più rara, non solo nel giornalismo. Da molto tempo la sua firma era sparita dalle pagine dell’Unità ma, per come solo certe sincronie possono essere alle volte involontariamente crudeli, è difficile sfuggire alla simbolica suggestione di un addio che coincide con l’eclissi del quotidiano nel quale aveva a lungo profuso le sue eccezionali qualità intellettuali. 
Differenti generazioni di lettori hanno potuto apprezzare di Fausto Ibba le analisi, i commenti, soprattutto i «corsivi», genere in disuso di brevi articoli in cui prevalgono l’arguzia e la polemica culturale. I suoi erano tra i contributi più lucidi e densi, in una comunità politica e professionale pur abituata ad allevare talenti. Ma lui ha sempre replicato con quel sorriso un po’ beffardo a chi gli riconosceva una particolare autorevolezza in redazione e il dono, il gusto di trasmettere metodi e stili di un lavoro che è stato una scuola collettiva, gioco di squadra, oltre che vocazione di singoli.
Il mestiere è mutato radicalmente rispetto agli anni in cui ogni articolo, prima di finire nel reparto composizione della tipografia (o di essere direttamente imbucato dall’ autore all’avvio dei progressi tecnologici), veniva «passato”, cioè letto, corretto, limato, integrato da un collega più esperto o dal caposervizio o dal redattore capo, in base al rilievo della notizia. Ebbene, una penna come Ibba, per lo scrupolo e la cura del dettaglio, in quell’epoca dava il meglio di sé. Beninteso, se c’era un uomo che non teneva lo sguardo rivolto all’indietro era Fausto: mi pare ora di non averlo mai sentito esprimere un rimpianto.
Troppo vivace la sua voglia di capire le cose del mondo e troppo radicato il suo disinteresse, perfino il suo fastidio verso le liturgie, la retorica, la demagogia. Non era un amico facile, ma un pungolo acuminato, per le leve più giovani quanto per i vertici. I giornalisti, gli piaceva motteggiare, si dividono in due categorie: quelli che scrivono meglio di come parlino e quelli che parlano meglio di come scrivano. 
Riteneva di appartenere alla seconda specie, e in effetti la sua prosa assai poco aveva di accattivante, di ruffiano, così asciutta, quasi priva di aggettivi e di avverbi, costruita come una logica conseguenziale dei dati di cronaca e degli argomenti. Ascoltarlo, invece, ti obbligava spesso al silenzio.
Piero Sansonetti, che ha sempre avuto un debole per i paradossi, prima di affidargli con Renzo Foa una rubrica personale fissa, lo definì «il maggior intellettuale sardo dopo Gramsci». Paragone assurdo, ovviamente, ma che voleva rendere giusto omaggio alla padronanza dei contesti storici e allo spessore culturale di Ibba.
Durante la normale riunione del mattino per impostare il giornale o in qualche tesa assemblea, aveva un suo modo sistematico di prendere le opinioni altrui e di smontarle con un acume che il suo garbo innato non rendeva meno implacabile e convincente. Lo assaggiarono per esempio, negli anni nei quali era al giornale il segretario della cellula comunista, quei compagni che sostenevano le posizioni eretiche del manifesto e si trovarono presto fuori dal partito e dal luogo dove operavano a fianco a fianco. Eppure non sarà per un caso se Valentino Parlato e Luciana Castellina hanno conservato per Ibba stima e affetto mentre il tempo passava, i contrasti si stiepidivano e si stagliava soprattutto il valore degli individui, con la loro correttezza e la loro coerenza. Come altri nomi di punta della nidiata di redattori venuti alla ribalta nella stagione poststaliniana − da Beppe Boffa a Candiano Falaschi, da Augusto Pancaldi a Maurizio Ferrara, a Luisa Melograni per citare coloro che sentiva più affini e che gli erano tra i più cari − Fausto si è cimentato con un giornalismo colto, nutrito di buone letture letterarie e attento alle condizioni delle «masse laboriose», per evocare il lessico di Umberto Terracini, un leader poco ortodosso che conobbe da vicino e di cui narrava divertenti aneddoti. 
Era il loro un giornalismo militante ma non partigiano, una maniera di fare informazione dalle istituzioni e dalla piazze che aveva il vezzo di misurarsi con le corazzate della «stampa borghese» senza timori reverenziali e, anzi, fornendole spesso e volentieri un costante innesto di forze esperte e smaliziate, a mano a mano che le antiche diatribe ideologiche svanivano. Quel loro approccio, politico e professionale, ha sentito inevitabilmente il riverbero delle differenti temperie attraversate dal Pci. Tuttavia nell’essenziale non si è asservito mai (ecco un termine che Ibba non avrebbe usato, che avrebbe sfumato) a un ordine di scuderia, all’ambizione privata di un dirigente. 
C’era una parola a fargli perdere a tratti la sua abituale flemma: gli accadeva se percepiva un che di enfatico e di vacuo nella battaglia volta a difendere e ampliare la cosiddetta «autonomia» di quel giornale rispetto a quel partito. Davanti alla chiusura dell’Unità, sancita dal Pd, può oggi suonare paradossalmente profetico il suo atteggiamento. Ma non direi che Fausto fosse ostile a priori alle innovazioni, alle proposte irrituali e irriverenti: seppe partecipare da par suo alle diverse fasi di cambiamento dell’impianto e della grafica del giornale e per la sua rubrica settimanale scelse non a caso il termine Contromano come «testatina» (bersagli prediletti erano le circonvoluzioni della Dc demitiana e il riformismo agitatorio del Psi craxiano in materia istituzionale). 
La sua maniera di incidere era però un’altra, si nutriva di servizi che creavano fastidi ai bonzi del Pci o della Cgil perché scoperchiavano gli altarini della propaganda: come quando la prima pagina ospitò un suo reportage in fabbrica in cui si rivelava l’indicibile: gli iscritti al partito erano in calo nello stabilimento simbolo di Mirafiori! Insomma, la sua visione dell’autonomia non costituiva una rivendicazione, non era uno strillo, uno sberleffo, semmai la capacità di scavare sotto la crosta dei luoghi comuni, l’impegno di rendere più aperto il giornale dandogli maggiore credibilità. Talvolta, perciò, con lui i ruoli si rovesciavano: un anno Ibba seguì la campagna delle elezioni regionali in Sardegna con una serie di cinque articoli formidabili per visione e accuratezza e, vedi un po’, fu il Pci a prendere quei suoi testi e a riprodurli pari pari in un opuscolo. 
Nella redazione di Cagliari aveva mosso i primi passi, il ragazzino del ’31 che era rimasto sconvolto dai danni dei bombardamenti degli alleati sulla città natale, una scossa che affiorerà spesso nei suoi ricordi come vera presa di coscienza della vita e della responsabilità individuale. Alla lunga gavetta tra i minatori e i portuali della sua terra seguiranno l’arrivo nella redazione romana e via via molti incarichi di spicco: è stato caposervizio politica e interni, caposervizio esteri, corrispondente a Sofia (per diversi annil’Unità ha tenuto inviati permanenti nelle capitali dell’Est sovietico), resocontista dal Senato per un quinquennio e responsabile della vecchia «terza pagina», palestra di confronto tra i vari filoni culturali della sinistra che andrebbe ristudiata. 
Nell’ultima fase, si era negli anni Ottanta-Novanta, aveva profuso tante energie nel nuovo servizio politico-parlamentare, realizzando belle interviste a cavallo tra cronaca e storia, seguendo convegni ad alto tasso culturale, oppure calpestando i pavimenti di sezioni di periferia per cogliere gli umori della «base». Non disdegnava di svolgere i compiti più umili. Perciò venivano anche da altri settori della redazione per avere da Ibba un consiglio, una «dritta», o farsi correggere un articolo delicato: il solo guaio era che bisognava prevedere molto tempo, senza mettergli fretta, il suo contributo era un’opera di cesello che sovente si interrompeva per una digressione. Ma non era affatto un uomo serioso (memorabili le soste al flipper nel bar di Bruno in via dei Taurini), semmai era malinconico (suo libro preferito Il giorno del giudizio del giudice scrittore nuorese Salvatore Satta). In una combriccola di teste pensanti, di inviati d’assalto e di cronisti in formazione (bastino i nomi alla rinfusa di Roggi, Baduel, Caprarica, Frasca Polara, Vasile, Geremicca, Fasanella, Rondolino), non c’è dubbio che Fausto Ibba sia stato una delle più solide figure di raccordo tra l’olimpo del Pci e il collettivo che si autoconsiderò «la Marina», cioè il corpo eletto, del partito.
Non gli si può tuttavia attribuire un’affiliazione a nessuna delle «anime» che vi serpeggiavano più o meno latenti e delle correnti che poi vi si insediarono. Si sentiva più in sintonia con Amendola che con Ingrao, questo è sicuro, però non si legò mai a un leader e, nonostante le loro comuni origini, neppure a Berlinguer. Il suo prestigio in redazione e a Botteghe Oscure dipendeva, penso, proprio da questa indipendenza di giudizio, dalla refrattarietà alle cordate, alle simpatie pelose. Poteva capitare così che un giovane quadro della segreteria nazionale gli facesse vedere una sua relazione prima di leggerla al Comitato Centrale, che il forbito Natta lo incaricasse di scrivergli parte del discorso che avrebbe pronunciato dalla tribuna del congresso o che l’iconoclasta Occhetto si facesse intervistare da lui per proclamare la filiazione della tradizione comunista italiana dalla rivoluzione francese. Un altro che nel volgere drammatico dei suoi ultimi anni accettava di parlare soltanto con Ibba era Gian Carlo Pajetta, il «ragazzo rosso» sempre più annichilito dalla rovina della Grande Utopia.
Ecco, se c’è una materia in cui Fausto era un pozzo di scienza era la storia secolare del movimento operaio internazionale. Ne aveva una conoscenza profonda, spaziava dal socialismo italiano alla socialdemocrazia tedesca, dalla rivoluzione dei soviet al terzomondismo «fochista». So di alcuni ricercatori che grazie alla sua generosità hanno presentato a loro firma documenti scoperti da Ibba. La ritrosia naturale, il senso del limite, il non prendersi troppo sul serio e magari un velo di pigrizia gli impedivano di infondere la sua preparazione storica e linguistica in un saggio scritto in prima persona. Gli bastava confrontarsi nella sua casa piena di libri con studiosi del calibro di Procacci o sbirciare la stampa russa e ragionarne sul filo dell’ironia con il burbero Vincenzo Bianco, militante leggendario dei tempi del ferro e del fuoco, l’unico a sciropparsi ogni giorno la consultazione della Pravda, finito in disgrazia a sforbiciare ritagli nell’archivio dell’Unità. 
Si deve a Giuseppe Vacca la felice intuizione di aver affidato a Ibba il compito di tradurre iDiari di Dimitrov, nell’edizione Einaudi curata dalla Fondazione Istituto Gramsci, che oggi rimane il frutto più corposo della sua opera culturale. Con l’eredità politica del leader bulgaro, il protagonista del famoso processo nazista per l’incendio del Reichstag, poi divenuto numero uno dell’Internazionale staliniana, Fausto aveva una speciale dimestichezza anche per motivi privati: nel suo paese aveva infatti trovato la compagna della vita. O meglio l’aveva trovata a Mosca, nell’università per stranieri da entrambi frequentata negli anni seguiti alla morte del dittatore. 
La liaison tra il giovane italiano e la giovane bulgara fu un mezzo caso diplomatico, sepolto per molto tempo nei segreti di famiglia (e di cellula), una querelle nota solo agli amici intimi, finché qualche anno addietro non l’ha resa pubblica Giuliano Ferrara. Era accaduto che Ibba, per di più capo dell’organizzazione comunista tra gli studenti connazionali, si fosse messo ad amoreggiare con una ragazza, Elka appunto, già sposata in patria con un rumeno. Da vicenda di cuore l’intreccio si trasformerà in un affare di partito, anzi di più partiti, il Pcus e il Pci, oltre ai «fratelli» bulgari e rumeni, con strascico di bisbigli, avvertimenti, censure attorno a un amore giudicato trasgressivo rispetto alle regole inconfessate dell’ortodossia e ai legami stretti tra i Paesi del «campo socialista». 
Oggi può far sorridere, ma si arrivò all’espulsione del nostro povero Romeo, che dovette interrompere bruscamente il suo corso di laurea in linguistica. Sarebbe stato al rientro «ricompensato» con l’ingresso all’Unità. 
Indimenticabile, dopo alcune riunioni della cellula italiana irritata per il moralismo degli apparati moscoviti e l’esercizio di mediazione tentato dalle Botteghe Oscure nelle inconsuete circostanze, il dialogo tra Fausto e il plenipotenziario dell’ateneo internazionalista. Il quale si mostra inflessibile: la decisione è stata presa in sede competente, gli innamorati vanno separati, Ibba deve rassegnarsi e tornare subito in Italia. Lui non può che prenderne atto, ma pretende gli sia rilasciato un attestato che riconosca la linearità della sua condotta di studente modello ospite dell’Urss.
I pochi giorni che precedono il rimpatrio forzato passano però senza che quel certificato si materializzi. Fausto allora non sente ragioni e ignorando gli inviti alla prudenza rimane provocatoriamente a Mosca. Alla fine bussa alla porta del Compagno Rettore: un incontro surreale, un duello di fioretto tra l’ostinazione di un sardo (e di un comunista italiano) e l’ottusità (e il senso pratico) di un burocrate sovietico. «Lei oggi doveva essere già fuori dall’Urss!». «Come vede, invece, sono ancora qui». «Ma in questa carta c’è scritto che lei ora si deve trovare in Italia!». «No, io non mi muovo senza avere ciò che vi ho chiesto e che mi spetta»… La testardaggine di Fausto ottiene in extremis quel riconoscimento accademico e morale. Ma subito insorge un problema procedurale: come potrà varcare il confine mostrando un documento di uscita che è scaduto e che per di più non è stato con ogni evidenza rispettato? Finirebbe di sicuro in altri guai. No, non ci pensi neppure all’ipotesi di averne uno nuovo: lo Stato sovietico ha una parola sola, è lui a non aver ottemperato alle disposizioni… Un confronto tra sordi che si risolve con un colpo d’ala dell’interlocutore: Fausto dovrà transitare ai controlli di dogana, in aeroporto, pronunciando due letterine «C. C.», ze-ka, che stanno per le iniziali di Comitato Centrale del Pcus, la formuletta magica recitata da dirigenti e funzionari di alto livello del partito-Stato per non dover sottostare a fastidiose verifiche e perdite di tempo.
Il comunista ribelle viene quindi finalmente cacciato dalla terra eletta grazie al lasciapassare della sua nomenclatura, spacciandosi per uno dell’élite. In fondo la sua carnagione olivastra e la folta capigliatura bruna possono attagliarsi a una delle innumerevoli etnie del microcosmo sovietico. Rimetterà piede in Urss vari anni dopo, accompagnando una delegazione di diffusori dell’Unità in viaggio premio. Ma forse da quella lontana prova, Fausto introiettò il disincanto verso la cruda realtà delle società socialiste che gli consentirà, credo, di patire meno di altri lo choc della caduta del Muro e di non provare il senso di fallimento integrale («Abbiamo sbagliato tutto, era solo una grande menzogna», si tormentava per esempio Ferrara senior) cui altri coetanei si abbandonarono. 
Ai formidabili traguardi del mondo sovietico aveva già smesso da un bel pezzo di credere (se mai ci aveva creduto) quando si avviò l’ingarbugliato processo della «svolta» occhettiana, che in ogni caso appoggiò e con convinzione per la sostanza della scelta di chiudere una storia e provare ad aprirne un’altra. Gli si farebbe un torto, però, a dimenticare lo spirito critico e l’insofferenza con cui guardò alle versioni del progetto che liquidavano con sentenze sprezzanti il corso di una lunga vicenda e davano fragili basi alla nuova avventura, sulle ceneri della Prima Repubblica. E sarebbe sbagliato credere che il suo disincanto di fronte al collasso di una possente, tragica costruzione collettiva fosse indifferenza, cinismo, o peggio assenza di ideali forti.
Ibba non aveva bisogno di abiurare, di fare tabula rasa, di cercare nuove verginità, perché del movimento che aveva alimentato per più di un secolo le lotte di milioni di persone sentiva vicine e sempre vitali in forme inedite le speranze di libertà, la tensione al riscatto etico, le ansie di giustizia. Un patrimonio che le fatali lezioni della storia e le fragilità della condizione umana non cancellavano ai suoi occhi di uomo del Novecento.
Articolo di Marco Sappino da l’Unità del 30 luglio 2014

Cordoglio della Federazione Nazionale della Stampa ai familiari e ai colleghi tutti del giornale

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