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Osservatorio sui media 17 Dic 2010

Settima edizione del Premio Claudio Accardi: per la sezione carta stampata hanno vinto, categoria senior Cecilia Palombo e categoria junior Rachele Tarantino

“Il racconto della guerra nei libri di Storia: come  la ‘guerra di civiltà' diventa ingrediente della nostra cultura”. È il titolo auto-esplicativo che Cecilia Palombo ha dato al suo piccolo, importante saggio.“L’Altro fronte della Guerra di Gomorra” è “ quello meno noto del riscatto e della giustizia; se da una parte cresce la violenza , dall’altra cresce  la consapevolezza e la voglia di riappropriarsi della propria città”. Lo scrive da Ercolano Rachele Tarantino

“Il racconto della guerra nei libri di Storia: come  la ‘guerra di civiltà' diventa ingrediente della nostra cultura”. È il titolo auto-esplicativo che Cecilia Palombo ha dato al suo piccolo, importante saggio.
“L’Altro fronte della Guerra di Gomorra” è “ quello meno noto del riscatto e della giustizia; se da una parte cresce la violenza , dall’altra cresce  la consapevolezza e la voglia di riappropriarsi della propria città”. Lo scrive da Ercolano Rachele Tarantino

“Il racconto della guerra nei libri di Storia: come  la ‘guerra di civiltà' diventa ingrediente della nostra cultura”. È il titolo auto-esplicativo che Cecilia Palombo ha dato al suo piccolo, importante saggio.
Cecilia non ha scritto un articolo su guerre lontane o ‘esotici conflitti’; aiutando  suo fratello  a studiare, l'autrice ha “sfogliato alcuni libri di testo per scuole medie” accorgendosi che “gli studenti più giovani imparano a pensare in termini di incompatibilità tra abitudini religiose, contrapposizione storica fra bene e male, superiorità culturale di un gruppo sugli altri”.

Il suo insolito contributo a un mondo di pace suona indiscutibile e particolarmente originale.

 

IL TESTO DEL SAGGIO

Il racconto della Storia nei libri scolastici: come la "guerra di civiltà" diviene ingrediente della nostra cultura.

L'inconfondibile prurito del dubbio comincia a solleticarmi la nuca mentre aiuto mio fratello, che frequenta la prima media in una scuola statale di Roma, a ripetere la lezione di storia. Legge ad alta voce dal suo libro di testo, seduto di fronte a me. Qualcosa stòna, devo forzarmi per non interromperlo ad ogni punto - Ma non posso correggerlo, si spazientisce, deve imparare quello che è scritto nel capitolo, Se è scritto dev'essere vero. A causarmi il prurito sono soprattutto gli incisi, le parentesi, gli aggettivi sparsi qua e là fra le righe: quasi niente di quello che legge è del tutto sbagliato; tutto è inesatto, impreciso. Il dubbio che mi è sorto è che, per la leggerezza con cui le parole sono usate dagli adulti e la diligenza con cui vengono imparate dai bambini, l'idea che la "guerra di civiltà" sia un esito storicamente inevitabile ci germogli dentro sin dall'infanzia. Nello stesso momento in cui viene loro insegnato ad aborrire la violenza, gli studenti più giovani imparano a pensare in termini di incompatibilità fra abitudini religiose, di contrapposizione storica fra bene e male, di superiorità culturale di un gruppo sugli altri.

Per verificare quella brutta impressione ho sfogliato alcuni libri di testo per scuole medie. Ne ho ricavato che in molti casi, quando si propongono di spiegare i momenti di interazione fra civiltà, solo superficialmente i testi parlano di un incontro (come a volte pretendono i titoli dei libri). La storia che raccontano è più subdolamente la narrazione di un conflitto continuo, incentrato per lo più su differenze religiose e morali, di una guerra fra valori positivi e valori negativi che implicitamente si propone di legittimare controversie di oggi. La radicalizzazione delle diversità religiose e l'inasprimento del senso di appartenenza a uno dei tre monoteismi, recepito come antagonista agli altri, possono così essere assorbiti a scuola come conseguenze oggettive di innate qualità naturali dei popoli. Senza mai affermarlo apertamente, questa storia finisce per essere il racconto dell'atavica superiorità spirituale e culturale del mondo occidentale.

Quando racconta la fine dell'Impero romano d'Occidente, ad esempio, A. Brancati ("I popoli antichi 2", ed. La Nuova Italia, 2000) si preoccupa giustamente di avvisare i lettori che le più moderne teorie storiografiche hanno abbandonato l'idea di un Medioevo barbaro: «I popoli germanici infatti accettarono il Cristianesimo e si incivilirono» (pg.54). La forma della frase non può che far intuire allo studente un nesso di causa ed effetto tra la conversione e la fine della barbarie: il cristianesimo e la civiltà. Quella dei Germani, dopotutto, non era che «una religione della paura», per fortuna sconfitta dall'impegno della Chiesa, che «armò tutte le sue forze per trasmettere loro la religione della speranza» (V. Calvani, "Scambi tra civiltà 1", Mondadori Scuola, 2007, pg.70). Lo stesso sospiro di sollievo («Per fortuna») è riservato ancora da A. Brancati alla vittoria di Carlo Martello a Poitiers, «sulle terre della dolce Francia» (ma non a quella di Leone III Isaurico, di cui nei libri non è rimasta traccia).

La trasmissione dei giudizi di valore (come dire la direzione da dare allo sguardo sul passato e insieme sul presente) è quello che rimane maggiormente impresso nella mente degli alunni, ben più di date e dati. Dal momento che non hanno ancora gli strumenti per una lettura critica, difficilmente studenti così giovani sapranno distinguere fra risultato di una ricerca storica e opinione personale di chi scrive. Disseminare giudizi contribuisce a costruire in loro un modo di pensare: per fortuna il re cristiano vinse quella battaglia, per fortuna i pagani si sono convertiti, per fortuna la Storia non ha preso la piega sbagliata. In quest'ottica le numerose popolazioni che chiamiamo germaniche e gli Arabi vengono spesso affiancati nei libri di testo (si fa la stessa approssimazione con Ungari, Normanni e cosiddetti Saraceni), perché hanno in comune l'onta di aver mandato in frantumi la presunta “unità politica economica e spirituale” del mondo mediterraneo. Da una parte, una grande tabella spiega ai bambini le differenze fra la civiltà romana e quella dei germani ("Scambi tra civiltà 1", pg.60): «I Romani facevano il bagno nelle terme; i Germani non si lavavano quasi mai; i Romani si profumavano con unguenti; i Germani emanavano cattivi odori; i Romani costruivano con malta pietre marmo e mattoni; i Germani costruivano con paglia sterco secco e legname». Dall'altra si tratteggia la terribile storia delle conquiste arabe ("I popolo antichi 2", pgg.99-103): quello arabo è «un popolo disperso», «primitivo», «che muove da una regione isolata e povera», «costretto a vivere in uno stato di continua anarchia al di fuori di ogni legame politico», con un unico elemento di unità: «la religione politeistica e idolatrica». Eppure è riuscito a conquistare il Mediterraneo, grazie alla straordinaria inventiva di Maometto ma soprattutto perché «animato da spirito guerriero e sollecitato da grande fanatismo». Accanto a una lettura tradizionale (ma ben poco aggiornata) delle origini dell'Islam, si fa strada il giudizio dell'autore: «La guerra degli Arabi fu combattuta con entusiasmo fanatico» da una gente che per sua natura è caratterizzata da «innata pigrizia»; ed è stata combattuta «in aperto contrasto con lo spirito del messaggio evangelico, affidato solo a persuasione e predicazione apostolica». I ragazzi metabolizzano così il messaggio che la religione della speranza (l'unica, sembra suggerire l'articolo) è anche la religione della pace. Qualcosa che non sembra conciliabile con lo spirito che muove i nuovi aggressori musulmani i quali, al contrario dei nostri avi, baserebbero la loro fede su «un libro dal contenuto elementare».

Chi impara a scuola che nella storia si è sempre manifestata una distinzione unilaterale fra bene e male, paura e speranza, guerra fanatica e messaggio d'amore, avrà probabilmente più facilità ad accettare la necessità di uno scontro violento nel presente fra parti presentate come incompatibili. Ovviamente non bisogna misconoscere nessun dato storicamente certo, nessun conflitto avvenuto, ma astenersi il più possibile dai giudizi morali e personali, dalle approssimazioni, dalle imprecisioni su argomenti che non si dominano. Essere comprensibili, parlare in modo chiaro e senza annoiare, non esclude l'uso di un buon metodo storico, né dovrebbe esporre al rischio di disabituare gli studenti (o non abituarli affatto) ai pensieri complessi. Nella Storia, sta imparando mio fratello di undici anni, c'è un bianco e un nero. Il male ha le forme dell'invasione, della guerra di conquista, della rottura di una tradizione più antica (la nostra): ma può essere sconfitto, assorbito, convertito. L'esercito persiano invase quel mondo greco da cui si vuol far direttamente derivare la nostra cultura e la nostra democrazia, ma non prevalse; i barbari sono passati alla civiltà quando hanno abbracciato il cristianesimo nella sua forma ortodossa; gli Arabi hanno smesso di essere «rozzi e semplici» quando la loro natura si è rivelata adatta «a imitare le idee, le cognizioni e le opinioni altrui» e «a fare tesoro degli insegnamenti più interessanti e complessi» dei popoli che soggiogavano ("I popolo antichi 2", pg.111). Caratterizzati da «primitiva rozzezza» sono anche i popoli unni e turchi: è stata la ferocia di questi ultimi a portare Urbano II a indire la prima Crociata, accolta con entusiasmo da quei cavalieri cristiani che inseguivano «nobili ideali di purificazione religiosa» e «nuovo fervore spirituale» (pg.214).

La silenziosa giustificazione della guerra fra civiltà mette così le sue radici nell'infanzia, viene assimilata, ingerita. Naturalmente gli studenti, facendosi adulti e magari continuando a studiare, formeranno e modificheranno spesso le loro opinioni: ma la piattaforma di partenza, la prospettiva con cui guardare al resto del mondo, il magma dei cosiddetti princìpi, tende a solidificarsi durante l'infanzia. A chi avrà studiato su questi testi rimarrà forse, come sottofondo, la sensazione di aver ereditato dal proprio popolo un patrimonio di valori positivi trasmessi in modo continuativo nel tempo, che altre culture non hanno o non hanno ancora raggiunto (e forse persino una Scrittura sacra più seria di altre!). Per superficialità depositiamo così il seme dell'ignoranza e della presunzione: insegniamo ad essere tolleranti, vale a dire a sopportare, ma non ad allargare gli orizzonti, non ad apprezzare. La guerra di civiltà, una brutta espressione spesso usata dai mezzi di comunicazione, è una guerra che può spostarsi molto facilmente dal piano intellettuale a quello pratico, ed è una guerra inevitabile solo perché continuiamo a coltivarla, a renderla ingrediente della nostra mentalità, a trasmetterla ed includerla in quello che pretendiamo sia il nostro vero bagaglio storico: perché fa parte dei nostri programmi scolastici.

Cecilia Palombo (categoria "senior")

 

Cecilia Palombo è nata a Roma nel 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, attualmente è in procinto di laurearsi in Studi storico-religiosi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università La Sapienza; studia inoltre nella Scuola di archivistica paleografia e diplomatica dell'Archivio di Stato di Roma. I suoi studi riguardano soprattutto la storia delle religioni monoteiste, la loro formazione e le interdipendenze reciproche, con particolare attenzione alle origini del cristianesimo e all'età tardo-antica. Ha collaborato con la casa editrice LaLepre.

 

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“L’Altro fronte della Guerra di Gomorra” è “ quello meno noto del riscatto e della giustizia; se da una parte cresce la violenza , dall’altra cresce  la consapevolezza e la voglia di riappropriarsi della propria città”. Lo scrive da Ercolano Rachele Tarantino la giuria ha ritenuto che il contributo di Rachele integri con quasi inedite ‘notizie buone’ le più note cattive notizie sulla guerra contro la malavita in corso alle falde del Vesuvio.

 

L’ALTRO FRONTE DELLA GUERRA DI GOMORRA

“Pronto, corri ne hanno fatto un altro”. Indosso il giubbotto, prendo le chiavi dell’auto e corro via. Ed ecco che la solita ansia mi assale. Ma non dovevo abituarmi a tutto ciò? Ricordo ancora la prima volta, mi tremava la penna tra le mani. “Ci farai il callo”, mi dicevano i colleghi più grandi, “Diventerà normale”. Normale? Ci si può abituare alla morte? Eppure sembra che qui, alle falde del Vesuvio, un po’ siamo abituati.  “Purchè si ammazzino tra loro” è una frase che sento spesso. La guerra non è poi così lontana.  Questa è la guerra di camorra. Nemmeno Ercolano è stata risparmiata. E pensare che prima di Cristo i ricchi romani l’avevano scelta come meta turistica, così come secoli dopo i nobili e i re borboni. Questa città trasuda storia e criminalità, ricchezza e dolore. Ma anche coraggio e voglia di cambiare.

Dagli anni ’80 è divenuta scenario della sanguinosa faida tra clan rivali, gli Ascione e i Birra. Da allora i morti si contano a centinaia. In gioco c’è la supremazia nelle attività illecite. Ad un caduto di uno schieramento, ne segue un altro, della parte opposta. È come una partita di ping-pong. Niente e nessuno può fermare le sentenze di condanna a morte emesse dai boss. Basta anche avere un grado di parentela per ritrovarsi al centro di una vendetta. Lo sa bene la famiglia Scarrone, che l’11 febbraio del 2008 ha visto morire Giorgio, di soli 28 anni. La sua colpa? Era il fratello di Agostino, affiliato alla famiglia dei Birra. Giorgio è morto al suo posto. Agostino si è salvato perché era in carcere per aver ucciso, a maggio del 2007, Gaetano Pinto, ovviamente degli Ascione. Il povero Gaetano, sapeva di dover morire. Così settimane prima della sua esecuzione si era chiuso in casa senza vedere nessuno. A tradirlo è stato il suo migliore amico, Ferdinando Abbate. A lui Gaetano non poteva non aprire la porta. Assieme ad Abbate, però, entrano anche Francesco Raino e lo stesso Scarrone. Pinto fu ucciso davanti agli occhi della moglie Angela, che, con un atto di raro coraggio, è riuscita a denunciare gli assassini del marito.

Agli omicidi e al traffico di stupefacenti si accompagna, come in ogni città di camorra che si rispetti, il racket. Il commercio ad Ercolano è soffocato dal pizzo.

I cambiamenti, però, erano nell’aria da un pezzo. Nel marzo del 2007, infatti, il blitz delle forze dell’ordine, definito “Reset”, assicura alla giustizia 56 persone. E sempre nel 2007 Raffaella Ottaviano denuncia, sola, i suoi estorsori. A chi le chiede perché lo hai fatto, Raffaella, la donna coraggio ercolanese, risponde: “Per i miei figli, per la mia città e perché, come diceva mia padre, senza coraggio non c’è dignità”.Ora Raffaella cammina per le vie della sua amata e disgraziata città, serena ed a testa alta, elegante, come solo una donna così coraggiosa può esserlo. Ma ha avuto paura, quando dopo numerose richieste, in uno dei suoi negozi di abbigliamento, entrano due uomini. "Vogliamo ‘a Padron - avevano urlato - ci manda lo zio". Raffaella, lei la titolare dei tre negozi di abbigliamento più famosi di Ercolano, non si lascia spaventare, non vuol sapere nemmeno il prezzo del pizzo che le stavano ordinando. No, non scende a compromessi, non ci pensa nemmeno un attimo. "I miei guadagni, la mia libertà, la mia famiglia, venivano improvvisamente colpiti duramente da qualcuno o qualcosa a cui tutti sappiamo dare un nome, che dappertutto evoca ingiustizia e soprusi: camorra. Non era possibile che rinunciassi a tutto quello per cui avevo lavorato duramente in tutti questi anni, ecco perché, sola, rifiutai qualsiasi contatto e li misi, in maniera anche decisa, alla porta. Fu una risposta ferma, ma in cuor mio mi sentivo spaurita, indignata, umiliata, ferita nell’orgoglio di lavoratrice e di commerciante. E proprio sulla forza di tale emozioni, ancora scottata dall’accaduto, mi recai alla locale Caserma di Carabinieri per dare seguito alla mia azione e denunciare i due malviventi".

Raffaella, però, per anni, rimarrà l’unico esempio di coraggio.

Rinchiusi i vecchi boss al 41 bis, il potere va nelle mani dei più giovani, inesperti, “più crudeli e senza codice d’onore”, così come affermato dagli agenti: scippi, rapine, gambizzazioni, bombe carta che esplodono all’esterno degli esercizi commerciali. L’escalation di violenza raggiunge il culmine nel mese di novembre dello scorso anno: un ordigno contro una panetteria e un omicidio a distanza di pochi giorni.

A morire l’11 novembre è Salvatore Barbaro, 29enne incensurato. Erano da poco passate le 15. Giocavano allegri e spensierati i bimbi. Saltellavano e si rincorrevano, lì tra il cemento, a via Mare, ignari di quel che stava per accadere. Una Suzuky Swift grigia imbocca la via, da Corso Umberto. Chissà forse si accorge di essere seguita, o forse, era proprio quella la strada che doveva percorrere. Una moto, grossa cilindrata le si affianca alla prima curva e comincia a sparare. Salvatore Barbaro non ha scampo. Riesce a percorrere altri 100 metri. Si ferma appena trova un po’ di largo, proprio a ridosso di Villa dei Papiri. La biblioteca che ha reso Herculaneum famosa in tutto il Mediterraneo, e che ci ha restituito la filosofia epicurea, è stata il luogo che ha visto l’ultimo sospiro di Salvatore. Gli assassini sono fuggiti, gli abitanti del posto sono subito scesi a dare i primi soccorsi.

Per Salvatore, non c’è nulla da fare. Una decina di colpi esplosi contro di lui, hanno raggiunto la gola e la spalla sinistra. Lo stereo in macchina continuava a cantare. Si è spento così, ascoltando musica. La sua passione. Salvatore, soprannominato "Savio il cantante", era imbianchino, ma per arrotondare e per divertirsi scriveva canzoni e le cantava durante i matrimoni.

Ciò che mi colpisce di più in questo omicidio, è la presenza dei bambini. Corrono, giocano, urlano. Non si rendono conto di cosa stia accadendo attorno a loro. Sono i piccoli di via Mare, i primi probabilmente a vedere l’orribile scena. A soli tre anni quei piccoli hanno già visto il sangue e la morte. I genitori non hanno vietato loro di rimanere a guardare. Arrivano i carabinieri, si attende il pm, la scientifica e loro sono ancora lì a guardare, a spiare come in un reality. Quei bambini sono già abituati alla morte?

Questa è la nota storia della camorra. La guerra di Gomorra. Ma non è questo è solo un fronte della guerra. L’altro fronte, quello del riscatto e della giustizia, è meno noto.

Se da una parte cresce la violenza, dall’altra cresce la consapevolezza e la voglia di riappropriarsi della propria città.

Raffaella Ottaviano dopo il processo dei suoi estorsori, aiutata dal tenente Di Florio e appoggiata dall’ex sindaco Nino Daniele dà vita all’associazione antiracket “Ercolano libera”. Nel 2009 e nel 2010 si susseguono numerose “passeggiate della legalità”: Raffaella, forze dell’ordine e amministratori passeggiano tra i commercianti e invitano a denunciare. “Uniti possiamo farcela!” continuano a ripetere. È per questo che è nato il “marchio della legalità”. Per combattere la camorra non c’è bisogno di gesti eclatanti, né di tanto coraggio. Basta scegliere di cambiare panettiere, macellaio o parrucchiere, a favore di coloro che espongano  marchio. È più della garanzia di qualità, è il marchio della legalità, della voglia di non arrendersi ai soprusi dei malviventi. È il marchio di coloro che dicono no al racket, di coloro che non pronunciano solo belle parole, ma che scelgono di agire, denunciando. Si tratta di un "consumo critico", al quale tutti dovrebbero essere sensibilizzati. Ciò non vuol dire abbandonare chi, invece, è ancora vittima della ragnatela del racket, ma spingere verso una ribellione e, indirettamente, ledere le casse della malavita organizzata. All’interno di quest’ottica, il consiglio comunale di Ercolano in un incontro, ha sottoposto all’attenzione del sottosegretario Mantovano la delibera di comprare a trattativa privata solo negli esercizi che espongano il marchio antiracket.

«Abbiamo deciso di includere nel nostro albo delle ditte di fiducia – ha spiegato l’ex primo cittadino Daniele - quelle imprese e quelle attività che si rifiutano di pagare il pizzo. Un’iniziativa che speriamo possa estendersi anche agli altri comuni».

Oggi sono più di 50 i commercianti che hanno detto no al pizzo.

I clan non sono stati colpiti solo nelle loro casse, ma anche nei loro simboli, nelle loro fortezze confiscate dalle forze dell’ordine.

Nella dimora di Giovanni Birra, boss dell’omonimo clan, in Corso Resina ha oggi sede una web radio anticamorra. È la città che si riappropria dei suoi spazi, sono i giovani che prendono in mano il loro futuro.  E pensare che mesi prima  una radio, “Radio Nuova Ercolano”, era usata dai clan per comunicare con gli affiliati in carcere. Adesso invece è simbolo di una battaglia vinta contro l’illegalità, perché, come ha sottolineato Dino di Palma, ex presidente della Provincia di Napoli, "sequestrare i beni alla camorra è facile, riconsegnarli alla città è una vittoria".

Nelle stanze dove prima si decideva della vita o della morte delle persone, oggi si parla di musica, di letteratura, giovani si incontrano, si scambiano idee, si divertono e decidono del loro futuro.

È da anni che la città Ercolano non viveva un simile fermento giovanile. Dopo l’omicidio di Salvatore Barbaro i Giovani di Radio Siani hanno deciso di organizzare una marcia anticamorra e dare avvio così alle attività radiofoniche. È sabato 21 novembre. I giornali dicono che è stato scritto un pezzo di storia di Ercolano.
Stavolta, però -è il caso di dirlo- non è la solita storia. Non è quella storia fatta di sangue, di morti, di pistole e di violenza. No. È la storia di giovani, tantissimi giovani, ma non solo, che sono riusciti a coinvolgere l’Ercolano dabbene. È da pazzi, qualcuno aveva detto, credere in una risposta positiva della città a breve termine. Invece, quel  sabato sera le strade si sono riempite. Circa un migliaio le persone che hanno sacrificato il loro sabato pomeriggio, per un sogno, oggi più vicino, Ercolano libera dai soprusi della camorra.

Partenza alle 18,30, proprio lì, sotto quell’appartamento che per anni è stato il regno della lotta tra il Clan Birra e quello degli Ascione. Tantissimi i giovani, le associazioni, qualche commerciante e le istituzioni. Giovani, e non, famiglie, associazioni e amministratori tutti uniti per dire no alla camorra. Un no urlato e cantato tra le strade principali e quelle del centro storico, sotto i balconi delle famiglie vicine ai camorristi, sotto le finestre degli omertosi, sotto le porte di chi, incredulo, finalmente vede una risposta degli ercolanesi. In prima fila con il loro striscione, "Le idee non si fermano con la paura", i ragazzi di Radio Siani. Accanto a loro Sergio Vigilante, presidente dell’associazione antiracket di Portici e Raffaella Ottaviano, presidente dell’antiracket di Ercolano.
Qualcuno che guardava dietro le tende di casa, qualcun altro che ammoniva la moglie di allontanarsi dal corteo, perché avrebbero potuto riconoscerla: ma è solo una parte della reazione alla manifestazione. Tra i vicoli del mercato una famiglia, al passaggio del corteo, si è affacciata al balcone con le pentole. «Mi sono emozionato alla vista di una vecchietta- ha dichiarato Luca Coppola, presidente dell’associazione A fronte alta- che annuiva ai cori e piangeva all’uscio del suo basso a Pugliano dicendo, "Finalmente, a maronn v’accumpagna"».

Oggi i giovani volontari di Radio Siani continuano a portare il loro messaggio di anticamorra, non solo nella propria città. I commercianti ercolanesi continuano a denunciare e numerosi sono gli arresti. Certo la camorra non è stata sconfitta del tutto, ma la guerra non è finita.  Alle falde del Vesuvio, però, c’è chi continua a combattere senza violenza, con coraggio, dignità ed onestà per la legalità e per una terra libera dalla malavita. E’ la nostra guerra della speranza, per un futuro migliore.

Rachele Tarantino

 

Rachele Tarantino è nata il 9 ottobre del 1987 a Torre del Greco, in provincia di Napoli, laureata in Filosofia e comunicazione presso l’Università Orientale di Napoli, con tesi in Storia contemporanea: “Strategia criminale e ‘questione rifiuti’ in Campania”. Dal 2006 ad oggi è corrispondente da Ercolano per il quotidiano on line dell’area vesuviana, “ilmediano.it”. Dal giugno 2009 è iscritta all’albo dei giornalisti pubblicisti della Campania ed è una delle voci dell’emittente web anticamorra, “Radio Giancarlo Siani”. Nel 2010 è stata stagista presso l’ufficio stampa del Consiglio comunale di Napoli. Attualmente collabora anche con il quotidiano “Il Roma”. Oltre al giornalismo, ciò che l’appassiona è l’intercultura: ha partecipato a scambi culturali e progetti per la pace in Medio Oriente, in Irlanda del Nord e negli Usa.

 

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