…Oggi propongo di dedicare il Congresso alla libertà dell’informazione e a tutti coloro che la testimoniano fino in fondo e che hanno pagato con il prezzo della vita. Oggi è il 21º anniversario - ahinoi il nostro Congresso ha tante coincidenze, infauste da questo punto di vista - dei morti di Mostar. Ve li ricordate tutti: Lucchetta, Hrovatin e D’Angelo, ai quali la città di Trieste e a essi intitolata hanno dedicato un giardino della memoria l'anno scorso. E’ un’iniziativa che una fondazione benemerita fa per ospitare i bambini mutilati, colpiti dalla guerra, resi orfani dalle guerre in ogni angolo del mondo…
IL TESTO DELL'INTERVENTO DEL SEGRETARIO GENERALE FRANCO SIDDI (formato Pdf)
Buongiorno a tutti, prima di cominciare con la relazione inviterei tutti a fare
una dedica di questo nostro Congresso. Abbiamo cominciato ieri pomeriggio con
una nostra commemorazione, un nostro omaggio alla Giornata della Memoria
riunendo in questa giornata il filo conduttore di una battaglia per la libertà
che ha visto di recente nuove vittime, a
Parigi in particolare con la tragedia di Charlie Hebdo e la morte sulla strada
di un poliziotto musulmano e di altri
cittadini ebrei; come settant'anni fa.
Oggi
propongo di dedicare il Congresso alla libertà dell’informazione e a tutti
coloro che la testimoniano fino in fondo e che hanno pagato con il prezzo della
vita. Oggi è il 21º anniversario - ahinoi il nostro Congresso ha tante
coincidenze, infauste da questo punto di
vista - dei morti di Mostar. Ve li ricordate tutti: Lucchetta, Hrovatin e
D’Angelo, ai quali la città di Trieste e a essi
intitolata hanno dedicato un giardino della memoria l'anno scorso. E’ un’iniziativa
che una fondazione benemerita fa per ospitare i bambini mutilati, colpiti dalla
guerra, resi orfani dalle guerre in ogni angolo del mondo.
Questa
dedica oggi dobbiamo, vogliamo ampliarla, proprio dando testimonianza fino in fondo di
questo nostro omaggio, abbracciando i familiari o i rappresentanti sociali di
chi nell'ultimo anno ha perso la vita semplicemente per voler fare il suo
lavoro, volendo essere testimone di verità, documentando i fatti e facendo
conoscere ai cittadini del mondo ciò che altri vogliono spegnere, vogliono
cancellare. Lo facciamo filmando, documentando, fotografando, trasmettendo ai
media episodi, fatti e vicende che aiutano a capire cosa sono certe guerre;
dalla tragedia di Gaza al conflitto russo-ucraino. Ricordiamo in un abbraccio
unico Andy Rocchelli, caduto nel maggio scorso a Sloviansk in Ucraina,
fotoreporter che si era creato una professione da sé insieme ad un collettivo
che ha base a Piacenza e che era diventato uno stimatissimo collega vero, al di
là delle etichette e al di là dei timbri, e che è caduto insieme ad un suo compagno
di lavoro russo, Mironov, proprio perché quella è una delle guerre più
intossicate da pozzi avvelenati delle notizie. Lui e il suo compagno Mironov
portavano luce e verità. Sono caduti sul lavoro, sono caduti diventando eroi
dell'informazione senza volerlo.
Il
13 agosto un destino simile è toccato ad un altro nostro collega: Simone
Camilli, anch'egli fotogiornalista e molto di più, il giornalista “tutto” dei new
media di oggi, il giornalista che scrive, che filma, che monta i servizi,
il giornalista che parla con il mondo, che lavora per l’Associated Press ma
anche per tanti altri soggetti che scoprono che il suo lavoro via via che va
avanti, in quel Medioriente caldo da oltre settant'anni, è più che mai
prezioso, non ha confini, parla tante lingue, è immediatamente riconoscibile da
tutti per il suo carattere di verità e per il suo carattere di alta
professionalità.
Simone
Camilli era in quel momento in una missione che sembrava quasi la più
tranquilla: la rimozione dei detriti, la bonifica dei siti. Sono esplosi invece
dei materiali inerti che contenevano esplosivo ed è morto insieme ad un collega
palestinese. Era la vigilia di Ferragosto, la notizia è arrivata come una
bomba. Quel giorno ero a Palazzo Chigi
con il sottosegretario Lotti, parlavamo di quello che sarebbe diventato di lì a
qualche tempo un accordo operativo sui finanziamenti per il lavoro e per il
nostro welfare; è arrivata quella notizia, si è fermato tutto, abbiamo cercato
di metterci in contatto indirettamente con i parenti, non abbiamo avuto il
coraggio di chiamare il papà, Pier Luigi Camilli, che è oggi qui e che è un
nostro collega, come è un nostro collega il fratello, Stefano, che lavora
all'Agenzia SKY News. Una famiglia di giornalisti naturale. Il 15 agosto siamo
stati a Pitigliano, la cittadina dove Pier Luigi oggi è sindaco, dopo aver
lasciato la professione attiva alla Rai; è stata una giornata indimenticabile,
di emozione, di commozione, di partecipazione, di affermazione visibile del valore
dell'informazione e della forza di quei testimoni che ci parlano e ci chiedono
di essere sempre presenti sulla frontiera della libertà. Una cerimonia
religiosa, quella funebre, a più voci, anche con più religioni, un rito
multireligioso di straordinaria intensità ed emozione che in qualche modo ci
restituisce vita, speranza e forza; credo la abbia data e la dia ancora alla
famiglia che è il primo bene, ma che la
dia anche a tutta la famiglia dei giornalisti.
Charlie
Hebdo, terza dedica, lo abbiamo ricordato ieri, oggi riprendiamo quel filo dopo
averlo tessuto in una risposta civile che ha detto: chi vuole spegnere le voci
in questo modo, con i kalashnikov, sappia che per una voce che si spegne ne
verranno fuori altre cento, mille. E così è stato, così abbiamo visto la
risposta civile di Parigi, ma anche quella di Roma a Piazza Farnese, quella di
Milano e di altre città italiane, di tante città del mondo. I cittadini del
mondo libero che credono nella libertà e negli Stati laici come condizione per
affermare la convivenza fra fedi, razze, etnie, idealità politiche diverse
sono una ricchezza che non regaleremo a
nessuno e il giornalismo ha il dovere di proteggerla, di tutelarla in quanto
condizione essenziale per distinguere i paesi democratici dai regimi.
Allora
in questo grande abbraccio, in questo grande impegno di solidarietà e di
libertà noi oggi vogliamo ricordare queste figure consegnando alle famiglie e
ai rappresentanti dei giornalisti caduti che ho citato la medaglia al ricordo,
la medaglia storica della Federazione della Stampa. Chiamo quindi al tavolo -
Presidente consentimelo e voglio te qui vicino a me - Pier Luigi Camilli, la
presidente dell’Aser Serena Bersani per Rocchelli, il presidente della
Federazione Mondiale dei Giornalisti IFJ Jim Boumelha, il segretario generale
aggiunto della stessa Ifj, Anthony Bellanger, già segretario SNJ, il rappresentante
del Sindacato Nazionale Giornalisti di Francia, SNJ, responsabile delle
relazioni estere, Mario Guastoni.
Scusatemi,
c'è un disguido: adesso ci stringiamo la mano, le medaglie dovevano essere qua
stamattina ma non ci sono ancora. Credo che comunque valga il nostro abbraccio
e il nostro applauso. Per suggellare la dedica del nostro Congresso. Più tardi
faremo la cerimonia di consegna della medaglia Fnsi.
(Seguono
interventi)
RELAZIONE
CONGRESSUALE
SIDDI.
Grazie Presidente, purtroppo fino all'ultimo istante abbiamo dovuto accudire
alle urgenze quotidiane di un sindacato che di fronte ai bisogni di intervento
di solidarietà e di sostegno ai colleghi non si può fermare perché c’è un
Congresso e qualche punto della nostra attività organizzativa lo perfezioneremo
qui in diretta.
Cari
colleghi, care colleghe, autorità, rappresentanti del mondo del lavoro,
sindacati confederali qui presenti, rappresentanti degli editori, Presidente
della FIEG, Presidente dell’Aeranti-Corallo, Presidente dell’USPI, colleghi e
colleghe tutti, arriviamo qui a quattro anni da Bergamo e abbiamo già
ricominciato dove a Bergamo ci eravamo lasciati, lavorando per quattro anni
intorno a ciò che Bergamo e il Congresso, le sue emozioni e i suoi indirizzi ci
avevano dettato.
Siamo
partiti non a caso dal tema della libertà di stampa, dal tema della funzione e
del ruolo del giornalismo nelle società democratiche e da lì riprendo
stamattina perché credo che due date siano per noi il filo conduttore di un
lavoro che appartiene alla continuità storica che della
Stampa ha sempre saputo darsi istituzionalmente, ricercando convergenze e
competizioni nell'ambito di un sindacato unitario e plurale, caratteristica
straordinaria di una forma di rappresentanza per un mondo del lavoro speciale
ma non privilegiato o diverso come quello dei giornalisti. Le due date che mi
introducono nel ragionamento che voglio proporvi stamattina sono quelle che, a
mio giudizio, hanno segnato particolarmente l'ultimo quadriennio per
l’informazione italiana e per gli assetti del nostro lavoro. La prima è quella
del 27 novembre 2012, la secondo è quella del 21 giugno 2014. La prima 27
novembre 2012, appunto, è la giornata nella quale, al termine dell'ennesima
battaglia di libertà della FNSI, con una vasta alleanza sociale finalmente
costruita e realizzata che va e andava dagli editori alle formazioni sociali,
alla società civile oggi tanto vituperata, il Parlamento rispose positivamente,
seppure in maniera sgusciante, all'appello forte che avevamo lanciato per la
dignità delle persone e il diritto di informare e che una proposta di legge
sulla diffamazione voleva di nuovo limitare con vincoli, lacci e lacciuoli. Era
una nuova battaglia, l'ennesima, di una lotta che dura da oltre un secolo per
la libertà e l'autonomia dell'informazione, per il diritto di cronaca, per
affermare un principio che riconosce il diritto dei cittadini all'informazione,
che riconosce i cittadini titolari di questo bene e i giornalisti esercenti di
una professione che a quel bene deve tendere, quel bene deve cercare di
assicurare, abbiamo visto purtroppo anche a prova della vita. Questo sforzo lo
abbiamo realizzato per la prima volta insieme anche agli editori della FIEG.
Non era la prima volta in assoluto, ma in quella circostanza un appello
congiunto con gli editori, pubblicato sui giornali, insieme ad un’attività di una
coalizione di forze sociali e civili e di direttori ha consentito di fermare
un'ennesima legge bavaglio. Quell'appello estremo era stato l'atto finale di
una lunga battaglia che nella storia della Federazione è praticamente secolare
e che nella condizione citata aveva già visto diverse manifestazioni di piazza
e in particolare una assai importante, scolpita ormai nella nostra storia,
quella del 3 ottobre 2009 - in quel caso legge intercettazioni - in Piazza del
Popolo: 300 mila persone allora a Roma e centinaia di persone nell’ottobre 2012
al Pantheon. Ancora al Pantheon per dare spinta a quell'appello estremo firmato
con gli editori e sostenuto con l'associazionismo civile del nostro Paese, da
Articolo21, all’ARCI, alle ACLI a LIBERA INFORMAZIONE, ne cito solo alcune.
Sono tantissime, a dimostrazione che il giornalismo vive, è libero e può essere
libero se connesso con il popolo che vuole e deve essere libero e che sa che è
libero se vive l'informazione libera, se vive la stampa indipendente.
La
seconda data è quella del 25 giugno 2014, quando è stato siglato un sofferto
rinnovo triennale del contratto di lavoro, seguito subito dopo, nella
mattinata, da un'intesa con il Governo Renzi, con degli
Editori e con l’INPGI, con l'obiettivo di sostenere il welfare a tutela dei giornalisti colpiti dalla crisi e a
sostegno della rimessa in moto del mercato del lavoro professionale. Un
passaggio difficile, non scontato, non da tutti percepito per quello che è e
sul quale giudicheranno soprattutto i colleghi e il tempo; i colleghi che
vivono i problemi veri e profondi di una professione che cambia e che corre
molti rischi sul piano del lavoro e delle sicurezze, che ci ha dato un altro
risultato politico rilevante: il ruolo e la funzione del sindacato attore
sociale resta vitale. Lo resta in un tempo in cui le formazioni intermedie
soffrono tutte una crisi di legittimità e subiscono attacchi da tutti poteri
che puntano a svuotarne il ruolo e a svilirli.
La FNSI è una forza sociale che in questa stagione
così complessa e difficile porta a casa - per taluni un demerito, per me è un
risultato rilevante sociale - un patto triangolare, vasto, esteso, che sta
dentro il disegno di un progetto che ci eravamo dati con i nostri congressi e
particolarmente a Bergamo, quando ci eravamo detti alcune cose. Ci eravamo
detti che il lavoro dignitoso è la prima condizione della nostra libertà, della
nostra autonomia, della nostra indipendenza e che questo lavoro, questa
condizione si crea se nel sistema dell’editoria stanno insieme, nell'ambito di
ruoli e funzioni, i fattori che concorrono a realizzare sul piano industriale
l'informazione che crea valore per i cittadini come per il pubblico, che crea
valore per i giornalisti che ci lavorano, per i poligrafici che ci lavorano,
per le maestranze tutte e per le imprese che investono e organizzano questo
lavoro.
Per
fare questo serve e serviva uno sforzo comune, ma serve e serviva una visione
che non può che partire proprio da qui richiami alla libertà e all'indipendenza
che abbiamo fatto stamattina e già ieri sera, cercando di riprendere il filo di
un'identità: quella della nostra professione. Un filo che è fatto da battaglie
permanenti per la libertà e la dignità del lavoro, che sono la nostra
caratteristica fondamentale ormai da un secolo abbondantemente superato, che
abbiamo avuto la fortuna grazie a voi di celebrare durante la mia segreteria
insieme al primo secolo dal primo contratto collettivo di lavoro - 1911 -
siglato proprio dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. I congressi
aggiornano le linee di intervento; le condizioni politiche, sociali ed
economiche condizionano le scelte operative, anche quelle quotidiane, per
un'organizzazione che deve tutelare interessi collettivi, morali e materiali
molto precisi, e allora quella della libertà dell’informazione è una battaglia
permanente che non è, come abbiamo visto, mai assicurata per sempre.
Dalle
battaglie contro il Fascismo che la videro soccombere nel 1925 quando della
Stampa dovette chiudere i battenti, anche con un carico di vittime e
perseguitati - in quegli anni lo furono personalità politiche e professionali
di grandissimo rilievo, da Amendola a Gobetti, da Matteotti a Donati, per
citarne alcuni - all'epopea della Resistenza e della scrittura della
Costituzione, delle leggi democratiche, che come abbiamo visto da sole non
bastano a dire che la libertà è assicurata per sempre, anche nel lungo tempo
della nostra Repubblica. Quanto mi piacerebbe che anche in Italia crescesse
quello spirito repubblicano che ho visto a Parigi l'11 gennaio; uno spirito
repubblicano di libertà democratica di tutti, che unisce i cittadini, che è
carta d'identità per un popolo e per una nazione! Non c'è bisogno neanche di
utilizzare la parola “democrazia” e la parola “libertà”, basta dire marche
republicaine, marcia repubblicana, perché sappiamo tutti per cosa si va in
piazza. Si va per la libera convivenza, si va per difendere i fondamenti di uno
Stato laico che crede nella libertà, nella fraternità e nell'uguaglianza, che
crede quindi nella cultura dei diritti che non sono un peso opprimente, ma sono
la condizione liberatoria di progresso civile, poi economico e poi sociale.
E
allora l’ansia di preservare la libertà di stampa dà un senso robusto all’idea
di informazione come bene pubblico, come diritto dei cittadini ad essere
informati, l’abbiamo continuamente riproposta in questa stagione e sono certo
che questa Federazione saprà riproporla anche nelle stagioni che verranno,
perché abbiamo già visto anche dalle cronache di questi giorni che ci sono
appuntamenti che non ci lasciano respiro, che ci chiedono di essere in campo.
Vigili, pronti ad agire sapendo che oggi gli interlocutori sono diversi da
quelli di ieri e che c’è una sorta di distrazione, che sono le tragedie. A
volte riaccendono verso una sensibilità
collettiva che ci fa vedere quali siano le cose che contano per la nostra vita
e per il futuro di tutti i nostri cittadini. Perché ci sono da spezzare gli
intrecci dei poteri con l’editoria, c’è bisogno di modificare il codice penale
per adeguarlo alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, c’è bisogno di un’azione che davvero contrasti i conflitti
d’interesse, c’è bisogno di stare sempre attenti, con questo continuo ritorno
ciclico dei tentativi di introdurre leggi liberticide. Avete letto le cronache di ieri, la legge
sulla diffamazione, il richiamo della Corte europea dei Diritti dell’Uomo che
più volte ha sanzionato l’Italia sul carcere per i giornalisti che deve essere
abolito, se vogliamo essere in linea con dei
Diritti dell’Uomo, il richiamo anche del capo dello Stato Napolitano su questo
tema; Napolitano, che pure ha sofferto ma ha accettato la condizione di una
stampa libera che giustamente ritiene – quando lo decide, nel suo pluralismo –
di criticare anche il Capo dello Stato e ha sempre difeso in questi anni con
forza e determinazione il valore dell’art. 21 della Costituzione. Credo non
abbia condiviso alcune campagne di stampa, ma ciò non gli ha impedito di essere
al fianco dei giornalisti, dei cittadini italiani nel momento in cui molti
giornali rischiavano di chiudere e altri rischiavano di essere censurati da
leggi che sono state frenate – ha fatto capire – con la sua moral suasion permanente. Non potevano
essere leggi innovative per la democrazia avanzata del nostro Paese.
Al
Presidente Napolitano io rivolgo un vivo
ringraziamento anche da questo palco, dopo averlo fatto quando ha lasciato
l’incarico, e lo faccio ancora di più
dopo la telefonata di venerdì scorso nella quale il Presidente mi ha affidato
un messaggio di affetto per il nostro mondo, per i nostri colleghi, un messaggio
di sollecitudine e di preoccupazione per la crisi che vive, unita
all’espressione di rammarico per non poter essere qui oggi con noi, non
intendendo di poterci inviare un messaggio promesso, non potendolo fare alla
vigilia dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, prevista a partire da domani,
non ritenendo di dover offrire alcun motivo di interpretazione di qualsiasi
genere su qualsiasi sua parola. Ritenendo in questo momento di affidarsi al
riserbo nell’esposizione pubblica; ma ritenendo di voler e poter dire mio
tramite oggi qui - e sono lieto ed orgoglioso che me l’abbia detto -, che
ritiene il giornalismo e il suo sindacato storico una risorsa per la democrazia
del nostro Paese e delle sue istituzioni democratiche. Grazie Presidente
Napolitano.
Su
un tenore simile anche la telefonata del Presidente del Consiglio Renzi, un po’ più agile nella comunicazione
riservatami, un po’ più diretta ma altrettanto rispettosa del ruolo della
funzione del giornalismo, attenta direi, sia pure con l’avviso che il Governo è
e resta impegnato a introdurre elementi di innovazione, dal suo punto di vista,
e di cambiamento che credo il Congresso, il Sindacato saprà sempre giudicare e
valutare con autonomia di giudizio e anche di spirito critico se lo riterrà.
Penso che siano due atti significativi e rilevanti di una interlocuzione sociale e istituzionale
rilevante di questi anni su questi temi. I temi della libertà e degli assetti
del sistema dell’informazione.
Il
3 ottobre 2009 i cittadini avevano compreso che era in gioco il loro diritto a
sapere, oggi lo sanno di nuovo che quel diritto va sempre sostenuto, e che
questo diritto non è un capriccio né dei giornalisti né del suo sindacato, né
di un gruppetto di privilegiati, anche quando il giornalismo non è all’altezza
del compito, anche quando pensa, il giornalismo, che si possa risolvere tutto
in un racconto superficiale e autoreferenziale del chiacchiericcio, o di ciò
che appare più scoppiettante e più emozionante.
Abbiamo
bisogno di andare oltre ancora, abbiamo affrontato su questo terreno e stiamo
affrontando – e ancora di più lo dovrà affrontare la categoria insieme alla
cittadinanza italiana - creando l’umore
giusto, la sintonia che oggi si è molto
persa probabilmente, la battaglia
in difesa del sistema del servizio pubblico e soprattutto per il suo
cambiamento, ineludibile, perché sia di nuovo identificabile veramente come
servizio pubblico e soprattutto sia sganciato dal controllo dei poteri
politici, sia riqualificato fino in fondo come impresa culturale e di informazione, sia anche efficiente, ma
l’efficienza sia legata a questi obiettivi.
Una
presenza qualificata e di guida, quella della Rai, prima impresa culturale
dell’informazione del Paese, che deve essere accompagnata da un sistema
realmente plurale, ordinato, sostenuto e non banalmente a fini politici in
tutti i suoi rami, soprattutto quelli che sono lo scheletro del pluralismo
dell’informazione italiana, l’emittenza locale, i media del territorio; sono quelli che oggi stanno soffrendo di più,
sono oggi quelli che oggi rischiano di chiudere sono quelli per i quali oggi
sta manca anche la protezione sociale. Per questi settori gli ammortizzatori
sono praticamente quasi morti come quasi tutti quelli delle categorie del mondo
del lavoro. Noi abbiamo ancora quella protezione sociale speciale e rilevante.
Mi dicevano i segretari dei tre nostri sindacati maggiori: “Finché potete salvaguardate questo, perché
per noi non c’è; salvaguardate finché
potete perché è un bene importante, attenti a non sbagliare le mosse, a come
gestite il tiro sul sostegno, sul cambiamento, sullo sviluppo. Gli
ammortizzatori innovativi e inclusivi, attenti a non perdere quello che avete
perché noi abbiamo già perso quasi tutto. Abbiamo perso la solidarietà in
deroga (i nostri colleghi dell’emittenza locale lo sanno), non c’è da
quest’anno il contratto di solidarietà, c’è la cassa integrazione in deroga
finanziata solo per cinque mesi; torneremo su questo punto, noi abbiamo nel
nostro settore degli ammortizzatori importanti, ahimè, solo per la carta
stampata, perché nel 1980-81 quello c’era e così è rimasto e prima di
disperdere quello ci dobbiamo pensare bene. Abbiamo saputo fare delle scelte di
priorità alla luce delle condizioni esistenti.
Tutto
questo l’abbiamo potuto fare grazie alle battaglie di qualificazione, di
accreditamento permanente del nostro ruolo di soggetto sociale, soggetto
impegnato in primo luogo sul terreno delle libertà. Ciò che conta è che oggi
più di ieri dopo l’orribile strage di Parigi, siamo meno soli, e noi
concorriamo a lasciare meno soli i nostri colleghi nel mondo, siamo meno soli
perché il mondo intero ha preso più consapevolezza del valore della stampa con
presidio di libertà di tutti, delle libertà democratiche in particolare, in
Italia ma non solo, come presidio di legalità democratica.
In
questo lavoro, prezioso è stato il collegamento con associazioni come Libera
Informazione, come Articolo 21, come i movimenti dell’associazionismo
democratico che hanno dato vita con noi alla Carta di Roma, per un giornalismo
consapevole, umano rispetto ai temi della tratta degli esseri umani. Per dire
che stiamo da un’altra parte rispetto ai trafficanti di uomini e mercanti di
morte. Tutto questo a volte sembra un fastidio all’interno dei nostri
dibattiti, se manca questo siamo una piccola cosa. Non siamo rappresentanti di
una professione, non siamo meritevoli di un rapporto di soggetto sociale
abilitato ad essere interlocutore e protagonista; attore di movimento sociale e
culturale, di relazioni istituzionali e industriali importanti e significativi.
Ecco
perché andando a Parigi, incontrandoci qui oggi con i familiari delle vittime e
con i nostri colleghi internazionali, dobbiamo continuare a dire con più forza
di ieri che non ci pieghiamo alle minacce, non ci pieghiamo alle intimidazioni,
non ci pieghiamo ai bavagli, non ci arrendiamo alla paura, ma soprattutto non
ci pieghiamo all’odio. Sappiamo di poter essere forti su questo quanto più
saremo capaci di essere insieme in un disegno di solidarietà internazionale che
non è un impiccio ma un valore, non è un problema, perché costa qualcosa
entrare nella Federazione internazionale e in quella europea, è una ricchezza
essere associati con la nostra capacità anche di contribuire solidalmente alla
vita delle nostre organizzazioni in Italia e nel mondo, perché il giornalismo
deve poter parlare se vuole essere attore di sviluppo, soggetto di democrazia
con una sola voce. Cioè con la voce del giornalismo etico professionale nel
quale si bucano i muri e si costruiscono ponti di civiltà, di convivenza, ponti
di democrazia, il giornalismo ha una responsabilità grande, pur essendo una
rappresentanza piccola nella moltitudine delle rappresentanze sociali,
culturali, nel grande caos delle dinamiche che stanno sconvolgendo la geopolitica
internazionale.
Oggi
con questo Congresso si chiude una fase, una fase politico-sindacale lunga,
sette anni di segreteria Siddi - se volete aggiungete anche sei anni di
presidenza - in un rapporto di convivenza che abbiamo sempre saputo sviluppare
in una dimensione via via più unitaria, via via però anche più complicata e
complessa con gli sconvolgimenti che viviamo, per la crisi che ci attraversa,
per l’atomizzazione della professione e del suo modo di organizzarsi e di
essere.
Rispetto
alle vecchie correnti di un tempo che erano anche un fastidio, che avremmo
voluto vedere superate, ma che, abbiamo visto, non hanno ancora dato luogo a
processi di ricomposizione dell’organizzazione delle idee e del consenso, che
richiedono una grande fatica democratica ulteriore, già a partire da questo
Congresso. Occorrerà sempre più rinvigorire le radici per non perdere la rotta
nel tempo dei tumultuosi cambiamenti che mettono in discussione tutto.
Al
primo punto c’è proprio la condizione dell’identità professionale, che non è
più la stessa di qualche anno fa, non di 10 o 15, e non a caso oggi proponiamo
al Congresso di ragionare: multimedialità, crossmedialità, transmedialità,
avendo fermi i capisaldi del nostro impegno: il lavoro, i diritti, l’autonomia
dai poteri. Dobbiamo fare i conti con le
parole che sono nell’occhiello, dobbiamo fare i conti con ciò che significano
quelle parole e i tumultuosi cambiamenti che ci sono; anche i rischi che ci
sono, fino a Bergamo parlavamo di multimedialità e avevamo la soddisfazione di
aver introdotto la multimedialità nel contratto, assumendoci la responsabilità
e il compito, ma ottenendo anche il riconoscimento morale e materiale nel
Contratto che dobbiamo essere
attori/protagonisti della multimedialità. Siamo entrati dritti dritti nella
crossmedialità e oggi siamo già alle prese con la sfida della
transmedialità che comporta dei
rischi per individuare dove siamo e
capire se ci dobbiamo essere, quali siano gli spazi dei giornalisti e come li
dobbiamo coprire. Lì ci soccorrerà sempre la nostra identità
professionale, quella del giornalismo
etico, rigoroso e autonomo. Noi dovremo saper discernere e orientare e
presidiare l’informazione proprio in questi processi dagli inquinamenti di vario
tipo, dedicandoci a fondo se si vuole innovare e allo stesso tempo dobbiamo
farlo potendo contare su un sistema chiaro di libertà e di autonomie e su
un’editoria che assicuri condizioni essenziali di lavoro e di natura
professionale. Mi fermo qui su questo punto. Ora dobbiamo riprendere il filo
del lavoro, il filo dei contratti, il filo di Bergamo.
Taluno,
per esigenze varie, di cabotaggio magari interno, ha preferito dire che siamo
andati fuori linea. No! Non siamo mai andati fuori linea, lo rivendico con
orgoglio e determinazione, siamo dentro
le linee dei Congressi; in particolare quelle che il Congresso di Bergamo ha
determinato sulle politiche del lavoro. Prima del contratto parlo d’un altro
tema: un tema che ci angoscia che è stato centrale a Bergamo e in questi
quattro anni. Il tema del lavoro, della lotta alla precarietà, dell’impegno a
non lasciare nessuno solo. A Bergamo abbiamo parlato molto della nostra idea:
piano straordinario contro la precarietà, punto di riferimento, stella polare
di un’azione lunga che va nel tempo e di un nostro impegno assoluto a non
lasciare nessuno solo. Abbiamo lavorato su queste piste con intensità e avendo
questi obiettivi come permanenti di tutte le iniziative, anche quelle più
minute che potevano dare un senso concreto
alla rappresentanza degli interessi dei colleghi a questo obiettivo. Il
piano straordinario è un’opera che doveva e deve riguardare più soggetti, non
solo giornalisti, perché la lotta alla precarietà - il male del nostro tempo e
delle economie un tempo floride, e oggi delle economie che invece pretendono di
riprendersi a spese del lavoro, con le politiche dell’austerità degli Stati e
il primato delle logiche finanziarie -,
mette a nudo. Combattiamo con le nostre forze queste derive e facciamo e
abbiamo dovuto fare da subito i conti con realtà del mercato del lavoro
devastante nella sua trasformazione in atto.
Il
mercato del lavoro che cambia, che ha mutato i connotati, per tutti, anche per noi. Molti di noi
pensano che noi siamo un’altra cosa, ma noi siamo dentro il mercato del lavoro;
e questo mercato del lavoro, così trasformato, costringe tutto il mondo del
lavoro italiano a fare i conti con questa devastazione. Noi non abbiamo potuto
sottrarci, siamo dentro, ci siamo dentro e abbiamo dovuto lavorare pensando ai
colleghi, ai loro beni primari ogni giorno, giorno dopo giorno avendo chiaro
dove stiamo andando e per quale obiettivo cerchiamo di fissare tappa dopo tappa
i nostri traguardi. Sono d’accordo con i Segretari confederali che più volte ce
l’hanno detto, soprattutto negli incontri bilaterali; è stato sempre più
difficile fare incontri unitari in questi anni, e lo sapete bene, ma portiamo anche l’orgoglio proprio averne
fatto uno proprio alla vigilia della
fine del nostro mandato, lo scorso 3 novembre. Per la prima volta dopo anni i
tre sindacati confederali maggiori, in Federazione della stampa, si sono
confrontati con noi sul Jobs Act, hanno ragionato tra di loro e con noi e anche
con le istituzioni, quel pezzo delle istituzioni che ha accettato di
confrontarsi e ragionare con noi (il Presidente della Commissione lavoro della
Camera). Una piccola cosa dirà qualcuno, una grande cosa per il senso politico
e sociale che rappresenta. L’abbiamo fatto perché siamo consapevoli di dover
realizzare alleanze sociali e di dover
condividere conoscenze, esperienze, impegni, per cambiare le cose che non ci
piacciono. Perché riteniamo che i lavoratori, e i loro diritti, siano una
risorsa fondamentale per lo sviluppo, non un cancro maledetto. Ecco cosa dico
ai segretari confederali, oltreché a noi stessi: nell’autocritica che dobbiamo fare, nel
lavoro anche quotidiano che facciamo quando abbiamo modo di interloquire sulle
scelte dei nostri direttori, che impostano i sommari dei giornali, i media non
hanno adeguatamente rappresentato questi temi. Nella generalità, non tutti
evidentemente. Spesso hanno assecondato con faciloneria e superficialità
politiche di austerità e di compressione dei diritti del lavoro, senza
interrogarsi a fondo sulle conseguenze generali o sulla verifica di strade alternative
possibili pur in un sistema compresso dalle politiche internazionali.
La
crisi devastante e molto grave del nostro settore è anche caratterizzata spesso
da comportamenti autoritari ed egoistici di aree dell’imprenditoria e di
benpensanti, complici giornalisti benpensanti in questo caso, di aree sempre più ampie della politica,
magari anche perché costretta a ciò da convinzioni interne di parte o da
condizionamenti internazionali. Per tutto questo molte aziende si sono spinte
solo verso forme di flessibilità al
limite della legislazione del nostro diritto sociale. Non siamo felici e non
accettiamo, non abbiamo mai accettato questa tendenza, paghiamo come altre categorie i mutamenti del
mercato e del diritto del lavoro, che nello specifico del giornalismo incidono
sulle certezze della professione in maniera profonda, come non era mai venuto
dal dopoguerra ad oggi. Si pensi alle leggi Sacconi, Fornero e ora a diversi
capitoli del Jobs Act. Non ci siamo arresi, non si è arreso il Sindacato
confederale; siamo tutti impegnati ognuno per la sua parte e nei suoi luoghi a
reggere l’urto e a lavorare per invertire la tendenza. Ci vorrà del tempo, ci
vorrà pazienza, bisognerà saper stare insieme su questo. Forti le distinzioni
sulle carte di ciascuno, ma insieme su questi principi primari. Io non credo
all’idea di chi immagina che licenziando finalmente si assume. Questa idea non
ci ha mai convinto e non mi ha mai convinto (applausi) perché non credo e
non crediamo proprio che il presupposto del nuovo lavoro qualificato,
rispettato, dignitoso, possa risiedere nei licenziamenti facili. Su questo io
credo che dobbiamo essere forti, uniti, alleati sociali di chi è impegnato su
questo terreno. Dobbiamo ringraziare chi, con la sua autorità morale, la
leadership mondiale, come Papa Francesco lo ricorda ogni giorno: il lavoro è la base primaria della dignità
delle persone, non ci si può arrendere, non si può piegare tutto alle logiche
della finanza e del profitto che non produce altro che ricchezze per pochi,
senza immaginare una redistribuzione sociale e un valore di questo per la
coesione e la crescita. C’è qui un problema sociale grande per noi, per la
nostra professione, che si coniuga con la grande questione che ho introdotto
della libertà e dell’autonomia, presupposti questi da riaffermare anche in questo contesto.
La
stampa sul lavoro, sulla fatica dei sindacati, ha troppo spesso, senza
generalizzare, prestato voce, attenzione e cura a questo cambiamento che di
riformatore in senso progressivo ha
poco, e ha prestato poca attenzione alle ragioni del dissenso, della protesta,
dell’alternativa. Le voci del lavoro sono voci di una civiltà democratica che
non si esprime solo attraverso i partiti e i governi, il confronto di merito
anche sulle compatibilità sociali ed economiche è un passaggio che mantiene un
suo rilievo per la coesione sociale e per la crescita. Certo in passato il
feticcio del salario variabile indipendente da qualsiasi valore era una cosa
che oggi non è più riproponibile così. Il discorso sta nella sfida che altri
però hanno rifiutato di cogliere e magari hanno negato in origine, declinando
in maniera devastante quel nuovo diritto del lavoro che piace a tanti e che è
definito da una sola parola
“flessibile”. Laddove flessibile
non significa spesso allargare l’area del lavoro, renderlo dinamico, ma
significa comprimerlo in tutte le sue declinazioni. Molte imprese, anche
nell’editoria, hanno cominciato a creare
sempre di più quote del lavoro prelevate dal mercato secondario, quello
dei precari per pagare meno, dribblare le regole, avere mano libera. I
risultati economici non sono positivi - e allora lo dico agli imprenditori che
sono qui presenti -: è tempo di cambiare
anche per lo stesso concetto di impresa. Nel nostro settore vale e tira
l’impresa se e quando mette insieme con equilibrio, intelligenza e cultura
editoriale progettualità innovativa,
persone, professionalità e risorse. Era la strada ed è la strada per
creare valore anche se riconosco che è impegnativa, molto impegnativa, da
percorrere per tutti, noi compresi,
servono risorse per reggere la
sfida nel tempo breve, sino all’uscita dalla crisi. Perché c’è un problema di compatibilità
economica tutt’altro che secondario. La via della finanza speculativa non va e
non produrrà sbocchi, soprattutto
nell’editoria. Per cambiare dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre
possibilità e anche nel frattempo, come abbiamo fatto, portando i materiali
buoni per costruire la nuova strada, rafforzando la capacità di espressione e
rappresentanza politica nella ricerca di alleanze sociali –a partire dai nostri
maggiori sindacati confederali. Perché noi abbiamo ripreso il nostro cammino
dopo la guerra e la liberazione da un patto con i nostri maggiori sindacati che
attende di essere rinnovato e vivificato nel tempo moderno, cari segretari dei
sindacati confederali. Non tutto è perso, ma occorrerà non arrendersi alla
prima sconfitta. Ce ne sono state, ce ne potranno essere ancora purtroppo,
è sempre così nella storia del movimento
operaio e dei lavoratori, ma le buone battaglie non si abbandonano, non si
abbandona ciò in cui si crede; la storia
di tutti i sindacati è fatta di battaglie, che partono da lontano, spesso si
vincono dopo tanti anni, l’importante è che queste battaglie non si cancellino
nella nostra agenda al primo ostacolo. Siamo in grado di vivificarle, di
realizzare intanto tutto ciò che appare possibile in questo disegno, atto dopo atto, così è stato dopo Bergamo, in
una visione di piano contro la precarietà, c’è l’attività solidale della
categoria, concretizzata negli sgravi per le assunzioni a tutti.
Rinnovi di assunzioni, fatto per i primi anni del nostro mandato a
carico solo della categoria, delle nostre Casse, della nostra contribuzione
sociale per tre anni; la lotta per creare le condizioni di riconoscimento del lavoro autonomo, e
della sua dignità contrattuale. Alla
fine di un giro si arriva per tappe, sono tante le tappe e nella condizione di
crisi eccezionale che viviamo e di trasformazione del mercato del lavoro come abbiamo detto,
dobbiamo metterne molte in conto.
Anche
dopo i nostri sgravi, che non hanno prodotto un significativo differenziale, la
crisi incombente è li e si misura nei dati. Ve ne leggo alcuni: nel 2010
avevamo 16.800 giornalisti attivi e contribuenti, oggi ne abbiamo meno di
16.000; nel 2009 avevamo 6000 pensionati, oggi ne abbiamo circa 8200 (mi
correggerà il presidente dell’Inpgi nel pomeriggio), abbiamo più di un
pensionato per due giornalisti che lavorano e quindi dobbiamo reggere un
sistema previdenziale con queste risorse, dobbiamo pagare le pensioni e
assicurare la socialità. Cominciamo a
rifletterci. Dobbiamo rimettere in moto il mercato del lavoro, e dobbiamo farlo
nell’ottica di piano che abbiamo cercato di mettere in atto, che abbiamo fatto
d’intesa con tutti gli organi della categoria, soprattutto i nostri Enti
sociali, l’Inpgi e veri, che stanno sulle cose come stanno ai loro
compiti istituzionali nella sensibilità dei dirigenti che li governano; eppure
dopo i nostri sgravi che non hanno prodotto risultati per la crisi devastante e
drammatica che è andata oltre e che
nell’ultimo anno ci ha fatto perdere altri 1000 posti di lavoro secchi (perché
le riduzioni strutturali dei posti di lavoro sono andate avanti) siamo riusciti
a fare qualcosa di più. Abbiamo perso delle battaglie, ne abbiamo vinto delle
altre; su questo tema siamo meno soli,
abbiamo incontrato un ragionamento aperto di sistema con gli editori, abbiamo
incontrato un ragionamento aperto nei governi e con gli ultimi due governi
abbiamo siglato dei patti importanti: il primo con il Governo Letta che ha
aperto la strada, il secondo con il Governo Renzi che ci ha messo materialmente
l’esecutività dei denari per dare sostegno pubblico, per la prima volta nel
nostro mondo, con un piano che promuove e sostiene le nuove assunzioni, mentre
si accompagna il bisogno di protezione sociale per chi va a rischio di lavoro e
di reddito per se stesso e per le proprie famiglie. Siamo in cammino, e questo
cammino io credo, a prescindere da chi vincerà la competizione congressuale per
le cariche, sia indispensabile poterlo continuare con rigore e attualità. La
spinta a fare di più che darà il Congresso sarà importante, come importante
spero sia l’energia di un cambio dirigenziale che è nelle cose; ma sarà
determinante saper sviluppare una nuova politicità di impegno elevato nel
rapporto con gli interlocutori, il Governo, il Parlamento, le imprese. Servono
ulteriori riforme di sostanza che aprano e vincolino la corresponsabilità, il
protocollo firmato in sede di governo il 25 giugno che va valorizzato e che è
suscettibile di miglioramenti e arricchimenti a partire da un minimo di regole
di democrazia economica per l’editoria, organizzatrice e produttrice del bene
pubblico informazione professionale diffuso ai cittadini che preveda ad esempio
forme di partecipazione dei lavoratori
alla verifica delle politiche aziendali laddove intervengono fondi
pubblici di sostegno e ammortizzatori sociali. Non dobbiamo avere paura del
termine democrazia economica. Non dobbiamo averla noi, e chiediamo agli editori
di aprirsi nel loro interesse e in quello collettivo, per essere soggetti e
promotori di sviluppo e di vera
innovazione, di cambiamento, di modernità.
Da
lì si parte, a mio giudizio. Questa modernità, questo cambiamento, dobbiamo
farlo incrociando esperienze, esigenze,
realtà diverse, ruoli e funzioni diverse, nelle reciproche autonomie, nel
rispetto che si deve. Se mancano le interlocuzioni o se pensiamo che
dell’interlocutore si possa fare a meno perché alcuni ci sono antipatici,
abbiamo sbagliato la strada. Questa è
una fase non semplice per noi, per il nostro modo di essere. Grazie alle identità
che il contratto e il nostro welfare ci assicurano e ci hanno assicurato.
Abbiamo visto che le certezze sono in cambiamento, ma le certezze possono esserci se vogliamo e
possiamo costruirle con rigore e responsabilità, rifuggendo da “ismi” di cui parlerò dopo.
E
in questa fase non semplice un posto primario, rilevante hanno appunto la
previdenza e il welfare. In una fase in cui tutte le attività, tutti gli
operatori di questo campo nel nostro mondo sembrano quasi finire sul banco
degli imputati perché si vuole sempre un di più, si vuole sempre chissà cosa,
si dice sempre “ciò non basta”. Prima di imputarci a vicenda, interroghiamoci
sullo tsunami (sette anni fa parlavo di un tir addosso) che si è abbattuto
sull’editoria, mettendo a rischio imprese e con esse posti di lavoro, contributi previdenziali e sociali, gli
istituti sociali della categoria. La nostra
Casagit solo in un anno ha perso tre
milioni di euro, eppure continua ad assicurare livelli di assistenza che altri
non hanno e ci invidiano; anzi si offre come terminale de servizi per un
welfare secondario di assistenza sanitaria nel momento in cui lo Stato sembra
considerare questo un impiccio, un problema. Lo stesso vale per la previdenza
anche se lo Stato, con alcune sue iniziative, tende a pensare che la previdenza
sociale - lo pensano anche alcuni politologi
e analisti, alcuni scienziati, si dice, della previdenza - sia un’altra cosa, sia provvidenza sociale. La
previdenza sociale per noi è ben altra cos;
noi abbiamo bisogno di preservarla e irrobustirla nei tempi che viviamo
con l’aiuto di tutti e la consapevolezza che lì risiede una parte del nostro
futuro, per noi e anche per le imprese. Dò atto alle imprese di aver concorso,
intelligentemente e correttamente, però siamo arrivati credo alla fine, credo
che siamo arrivati al massimo dell’impegno su questo. L’abbiamo fatto con il
protocollo, gli accordi e i contratti. I contratti stipulati in questi sette
anni (due, ma direi che sono tre, perché
quello economico quando avevamo la contrattazione quadriennale di fatto è
stato un vero e proprio nuovo contratto),
hanno realizzato la più grande redistribuzione di reddito di tutti i tempi
avvenuta nel nostro settore. Un’operazione solidale, discussa e magari
discutibile, attraverso la quale ci siamo fatti carico per la nostra parte
delle responsabilità di sistema verso i colleghi più deboli o a rischio di
diventarlo, privilegiando gli istituti previdenziali e sociali rispetto alla busta paga. Inpgi, Casagit e
Fondo complementare sono stati al centro, perché lì sta il pilastro delle
nostre garanzie di autonomia sociale e di libertà. Si è trattato di riconoscere
come priorità il finanziamento di politiche per il lavoro, per gli
ammortizzatori sociali, su tutti le Cigs e i contratti di solidarietà, la
prosecuzione delle prestazioni Casagit, scelta consapevole del Cda della Cassa
(da noi pienamente condivisa e sostenuta) ai colleghi che perdevano i posti di
lavoro. Il fondo contrattuale per le perequazioni minime delle pensioni più
basse con cinque euro del possibile aumento di stipendio nel precedente
contratto, senza dimenticare l’accordo per l’aumento entro gennaio del prossimo
anno del 3% dell’aliquota contributiva previdenziale a garanzia della pensione,
primo pilastro, che ci porta nella contribuzione per le pensioni allo stesso
livello dell’Inps sostanzialmente. E da ultimo come non ricordare gli aumenti
in busta paga uguali per tutti con attenzione ai livelli economici più bassi e
l’impegno per rafforzare e solidificare la previdenza complementare dei
giornalisti, il Fondo complementare,
secondo pilastro, a capitalizzazione, questo sì, per il quale occorre trovare le risorse anche
attraverso le dinamiche salariali.
Se
la busta paga non cresce non vedo come i colleghi possono trovare le risorse
per finanziare questo secondo pilastro nel momento in cui quella di primo
pilastro si dimezza rispetto a quella
degli anziani. Noi abbiamo il dovere di lavorare per evitare conflitti tra
generazioni, lo strappo tra le generazioni, la rottura sociale della categoria
come sta avvenendo nel Paese. Questa linea è coerente con i principi, con le
linee espresse negli ultimi Congressi, peraltro io credo incardinate nella
tradizione e nella storia della Fnsi. Nella linea solidaristica affermata con
rigore, avendo l’accortezza di non arretrare di fronte agli estremismi parolai, del “più uno” del
“ci vuole di più” del “non
basta”. C’è una questione di metodo, chi vuole contesti pure.
Nel
tempo dei contratti che non si fanno, neanche nel pubblico impiego, neanche per gli insegnanti, da anni non si
fanno per i dirigenti della FIEG nel settore editoriale, non si fanno per i
poligrafici - che anzi sono chiamati a
sborsare soldi per tenere in vita ciò che rimane del Fondo Casella -, nel tempo
dei rinvii di coloro che continuano a demolire il contratto, alcuni avrebbero
voluto un rinvio per cercare di incassare un dividendo politico interno (cosa deleteria e questo
giudizio l’ho detto e lo confermo con forza da questa tribuna), nel tempo dei
rinvii e dei contratti rimandati, con ben altro impoverimento delle
remunerazioni incassate, questo è un risultato che considero straordinario. Lo
rivendico con forza, e mi piacerebbe che lo facessero con trasparenza e
altrettanta forza tutti coloro che in Giunta e nelle Associazioni di
Stampa, hanno condiviso e partecipato a
questo processo.
Il
tempo delle finzioni, il tempo del doppio detto, non paga. Le cose verranno
fuori tutte, perché il conto viene presentato a tutti, il tempo sarà buon
giudice oltreché buon maestro. Ricordo la fila di colleghi che hanno contestato
e lavorato per demolire il contratto, magari sostenendo direttamente e
indirettamente aggressioni alla Federazione della Stampa e ai suoi dirigenti
perché hanno firmato il contratto, molti
di loro venivano nella mia stanza a chiedermi: “per favore andate avanti con il
presidente Rossi, cercate di portare a casa il possibile, salvate il contratto
e fatelo”. Salvo poi dire: ci avete negato la partecipazione, ci avete negato
il controllo del contratto, ci avete negato il conflitto, ci avete negato il
negoziato”. Siamo stati nella linea, l’abbiamo sempre resa trasparente a tutti
i membri di giunta, a partire da coloro che vivevano nella stanza, a coloro che
addirittura sostenevano che bisognava firmare già prima, penso all’ex Fissa,
cose ben diverse da quelle che abbiamo firmato sette mesi dopo, non è mio
interesse additare nessuno, ma ciascuno sa cosa sto dicendo, poi dopo magari
descriveva altro nelle sue assemblee, con le urgenze e emergenze di un lavoro
24 ore su 24 che non ci ha mai abbandonato, perché non abbiamo lasciato nessuno
solo in nessuna vertenza. Ringrazio in particolare Gigi Ronsisvalle, ma anche
Daniela Stigliano, Besana, ma anche Perucchini, Lo Russo, tutti quelli che si sono davvero prodigati.
Ringrazio meno altri evidentemente. In
primo luogo ringrazio in maniera assoluta Giovanni Rossi, che si è trovato a
fare il Presidente in una condizione diversa, proprio perché nessuno fosse
lasciato solo, affinché tutte le energie
fossero impegnate sui punti
primari del dolore e della sofferenza. Chi aveva bisogno di una parola, di un
conforto e di un’assistenza. Eppure nonostante questo abbiamo fatto un lavoro
di fatica democratica immenso e di concretezza, che andava portato
correttamente e trasparentemente, così come trasparente è stato nell’evoluzione
del lavoro di giunta.
Per
cabotaggio sono state dette spesso altre cose, per un piccolo dividendo
politico da incassare magari in questo Congresso, farà la fortuna forse di
qualche voto, ma non la fortuna di un disegno. Lo stesso spirito e carattere ci
sono stati nell’azione che abbiamo svolto sul piano contrattuale allora per i
collaboratori, altro punto dolens. I
collaboratori erano solo fantasmi per gli editori, anzi addirittura erano
additati come imprenditori di se stessi, svillaneggiati, sapendo bene che chi
guadagna un euro, due euro per un articolo non è un imprenditore: è un
lavoratore sofferente che coltiva una speranza di essere un giornalista, di
essere un lavoratore titolare di diritti. Benché per gli editori e per tutti
siano produttori di valore per i loro giornali; oggi sono soggetti professionali,
titolari di identità e di diritti, anche
economici, per quanto si tratti solo dell’apertura d’una strada. Eravamo a zero
su 100, adesso siamo a 50. Per chi
vorrà, potrà e dovrà c’è da cimentarsi
con nuove sfide già a partire dal prossimo contratto; lì forse si potrà
rinnovare nel marzo dell’anno prossimo, ma c’è una strada percorribile, una
strada che è disegnata, delineata in parte, con il sottofondo preparato. C’è
qualcosa di più quindi dello zero che avevamo, direi molto di più sul piano
dell’identità, dei diritti esigibili e riconoscibili, così come lo sono i primi
riconoscimenti sul piano del welfare. Il lavoro autonomo era al centro del
dibattito di Bergamo, così come lo era il contratto nazionale, il cui rinnovo
era tutt’altro che scontato, semmai più vicina stava diventando l’ipotesi del suo esaurimento. Nel contratto oggi ci
sono nuovi diritti, per gli autonomi da irrobustire, nuove opportunità, per la
nuova occupazione, per un ricambio anche generazionale sul piano professionale,
c’è un disegno che solo chi è animato da altri scopi come ho detto prima, magari legittimi tutti, però
interni e autoreferenziali, di quella
autoreferenzialità che sta concorrendo ad uccidere la nostra Italia come ha
rilevato De Rita nella sua Relazione al rapporto Censis di quest’anno; riguarda noi, la politica, altri soggetti, e
rifiuta di vedere. Invoca magari nuove idee, ma ricicla quelle vecchie, con una riverniciatura di
modelli di comportamento superati da tempo. Magari possono far presa nella
disperazione o nella brama di vedere soddisfatti egoismi particolari, ma non
reggono né reggeranno tuttavia al tempo che, come ho detto, sarà buon giudice.
Ci vuole pazienza e tanta responsabilità e auguro pazienza, responsabilità, e
coraggio ai dirigenti che mi succederanno.
Ma torno al disegno che è quello di una rotta inclusiva, solidaristica, che fa i conti con la realtà e pianta nuovi
alberi per il futuro. Dovranno essere accuditi con cura se non si vuole che
deperiscono subito e se si vuole che producono altri frutti.
Il
dibattito precongressuale sembra aver rimosso i nodi contrattuali per
privilegiare la costruzione di un consenso che rischia di essere finito,
politicamente debole, buono magari per fare maggioranze numeriche ma non per
tracciare una rotta sicura. La discussione e la verifica non possono essere
affidate all’umore del momento, a slogan
di rapido consumo. Spero che il dibattito congressuale smentisca questa mia
sensazione: dobbiamo lavorare per essere altro, possiamo e dobbiamo farlo
perché sappiamo che sappiamo farlo, se vogliamo. Per me la preoccupazione
centrale rimane quella del contratto
collettivo nazionale del lavoro giornalistico, unica vera garanzia
dell’autonomia e della libertà professionale delle scelte di ciascuno. Il
contratto ha bisogno certo di essere innovato molto di più, ma per fare questo
non si può fare il gioco di chi vorrebbe farlo morire. Dalla crossmedialità
siamo arrivati al transmedialità
insidiosa più che mai, decidere chi è giornalista, dove metterlo, come
assicurargli le condizioni per affermare la propri dignità professionale ed
etica, a questo punto è un tema di ragionamenti per il prossimo contratto.
Esercitarsi al suo rinnovo è già compito
immediato, ma intanto c’è un contratto robusto,
rinnovato, c’è ed è garanzia
della professione ed è invidiato e invidiabile a ogni latitudine. Ce lo dicono
i nostri colleghi nel mondo. Negarlo è
farsi del male come lo è non voler vedere la realtà dei fatti, non voler
conoscere il mondo nella sua dimensione reale e nei suoi tumultuosi cambiamenti
globali.
La
vecchiaia del contratto non ha impedito e non impedisce di includere i nuovi
giornalisti che stanno nelle nuove realtà editoriali, possiamo portarli dentro
mentre cerchiamo di adeguare norme ed identificare meglio le figure del
cambiamento con giusti riconoscimenti. Ma se questo processo per la forza
dell’interlocutore può portare a un travolgimento del contratto, salviamo il
contratto e manteniamolo vitale. Ecco perché allora rivendico fino in fondo chi
con coerenza, con questa Giunta e con questo Segretario, ha lavorato. Il lavoro
di questa Giunta e di questo segretario ha portato fino in fondo coerentemente
questa linea nei rinnovi contrattuali da poi. Così come lo
hanno determinato non Siddi, non singoli membri, non singoli capricci, ma i
Congressi della Fnsi e dei suoi organismi. Piaccia o non piaccia la propaganda
dura poco e non porta risultati. E lo faccio questo ricordando la portata delle
scelte strategiche che abbiamo fatto, in ragione dei tempi, delle condizioni
oggettive vissute. La portata del risultato politico: 1) un sostegno al welfare
a tutela dei giornalisti colpiti, e a sostegno della rimessa in moto del
mercato del lavoro professionale. 2) la
riaffermazione del ruolo e della funzione del sindacato, attore sociale
riconosciuto e riconoscibile nel tempo in cui le formazioni intermedie soffrono
per la crisi di legittimità e subiscono gli attacchi di chi vuole modificarne
il ruolo. Su questo abbiamo cercato di
trattare come interlocutori veri, con il Governo e il Parlamento. Sento un
ritornello di chi è distratto, o di chi vive come tanti giornalisti della
superficialità delle cose, cogliendone così
sensazioni, aspetti che ci danno apparentemente vigore nell’immediato, è
cioè la chiacchiera che non abbiamo peso
politico. Auguro alla Federazione di avere interlocuzione e peso politico
come l’ha avuta negli ultimi, non sette anni di Siddi, ma negli ultimi 15 anni
e forse venti.
Io,
ahimé, sono diventato vecchio da questo punto di vista, sono entrato nel Consiglio
nazionale nel 1992; per taluni è stata una colpa, perdonatemi ma io non la
vedo, quella di trattare con il Governo, con questo Governo oltreché con i precedenti. Questo gruppo dirigente ha
trattato con Governi di segno diverso e di colore diverso. Mai mollando sui
punti fondamentali della sua linea, anzitutto quella della libertà del diritto
di cronaca, mai. Berlusconi, prima ancora Prodi, la legge Mastella se ve la ricordate, c’era
ancora Serventi nella fase finale del suo mandato e io ero Presidente, poi di
nuovo Prodi, poi Monti, Letta, e ora Renzi. Abbiamo tenuto la barra con
coerenza e determinazione sui quei temi
come sui temi della socialità, portando a casa anche dei risultati. Ai tempi
del Governo Berlusconi molti dicevano li
avete portati a casa quei risultati perché avevano un interesse a fare i prepensionamenti . Oggi chi rischia di rimanere senza pensione, senza
cassa integrazione o solidarietà ci chiede i soldi per quello e li avevamo
portati a casa per la prima volta col Governo Berlusconi e con un Sottosegretario
che si chiamava Bonaiuti. Dò atto a
tutte queste persone che abbiamo incontrato, a tutte queste intelligenze
che hanno discusso e si sono confrontate nel merito delle cose.
La
stessa cosa l’abbiamo fatta con il Governo Monti, l’abbiamo fatta prima ancora
di Berlusconi, la pausa breve di Prodi,
con il sottosegretario Levi, avviando i primi passi della riforma
dell’editoria, quella assistita e finanziata in particolare, introducendo criteri
di moralizzazione e di pulizia che rivendico alla lotta di questo sindacato.
Così
i Lavitola non ci possono più essere perché questo sindacato ha portato a casa
con il Governo Prodi e con Richy Levi e dopo con il Governo Monti e con
Peluffo, sottosegretario, un risultato straordinario di rinnovamento dei
regolamenti. E poi con il Governo Letta, Sottosegretario Legnini, il patto di agosto del 2012, patto di sistema con tutti i soggetti del
settore dell’editoria, dalla Fieg all’Ansa o
passando per l’Uspi, alla Fnsi
che ha gettato le basi per una nuova politica sociale per il settore.
E
con il Governo Renzi, e con il sottosegretario Lotti, si è sostanziata in un
intervento efficace, pratico, concreto, di svolta, che ci obbliga a una sfida e a misure nuove.
Però rilevanti, che corrispondono alle nostre richieste antiche che duravano da
15 anni: i prepensionamenti “si”, se ci
sono assunzioni, se c’è innovazione e sviluppo,
se gli investimenti non consistono solo nell’acquisto di quattro
macchinette da mettere in redazione. Se ci sono le persone come investimento
primario, cioè coloro che danno un senso all’informazione, alla qualità e che
nel tempo della globalizzazione rendono appetibile e interessante anche dal
punto di vista mercantile l’informazione per l’industria dell’informazione appunto. Il divieto per i prepensionati di continuare
a lavorare in redazione negli stessi ruoli di prima, e oggi dobbiamo continuare
quella battaglia, devono sparire i colleghi che la domenica vanno a chiudere il
giornale o a farlo pur essendo andati in pensione con un bonus, togliendo
lavoro ai precari e ai giornalisti che avrebbero diritto di lavorare la
domenica per integrare i loro salari.
(applausi)
Queste
cose le abbiamo sempre combattute, le continuerete a combattere, le
combatteremo insieme, io lo farò da militante insieme a voi. Sono battaglie di
qualità, di riferimento che non vengono meno, ma lì abbiamo messo per la prima
volta un punto fermo, nella legge non solo in una circolare. Che ci obbliga a
fare i conti spesso con i nostri colleghi anche con i nostri Cdr, molti dei
quali vengono e ci dicono “ma come si
fa, poverino, come facciamo a dirglielo noi, glielo dovete dire voi”, quasi che
noi fossimo i poliziotti.
È
una cultura sindacale, morale, solidale che dobbiamo riprendere a sviluppare a
tutti i livelli e latitudini. Anche su questo siamo stati nel solco che
contestate quando venite alla tribuna,
nel solco tracciato con gli obiettivi che ci eravamo posti. Penso che
sia un riferimento importante, si tratta con i governi a prescindere dai c