La frase sarà stata pure offensiva, ma la valutazione circa la diffamazione va effettuata tenendo conto dell’intero articolo e del contesto. Senza dimenticare che ogni provvedimento di natura penale posto a carico di un giornalista ha un sicuro effetto deterrente sulla libertà di stampa.
La professoressa Marina Castellaneta riassume così, sul suo blog, il senso dell’ultima sentenza (Milisavljević contro Serbia, depositata il 4 aprile) della Corte europea dei diritti dell’uomo a tutela del lavoro dei giornalisti con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato la Serbia per violazione della libertà di espressione garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei dritti dell’uomo.
Ecco come la professoressa Castellaneta ricostruisce i fatti. Una giornalista del principale quotidiano serbo aveva pubblicato un articolo su un tema caldo, come la cooperazione delle autorità serbe con il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia. In particolare, l’articolo era critico nei confronti di un’attivista dei diritti umani.
La giornalista aveva ripreso nel pezzo un’espressione contenuta in un altro articolo, non scritto da lei, che definiva l’attivista come “prostituta, venduta agli interessi degli stranieri”. Tale espressione non era riportata tra virgolette e così la giornalista era stata condannata, seppure solo con un ammonimento, per non aver riportato il contenuto dell’indicata espressione tra virgolette, mostrando di condividere quell’espressione.
Di diverso avviso la Corte europea che, prima di tutto, ha precisato che anche senza che fossero riprodotte le virgolette, la frase riportata non costituiva un’opinione della giornalista ma una comunicazione sul come la donna era percepita da altri. E d’altra parte – scrive Strasburgo – non si può chiedere a un giornalista di prendere le distanze sistematicamente e formalmente in un articolo dalle opinioni di altri.
Non solo. I tribunali nazionali non hanno effettuato un bilanciamento tra i diversi diritti in gioco: da un lato il diritto alla tutela della reputazione dell’attivista e, dall’altro lato, il diritto, ma anche il dovere, del giornalista di fornire informazioni di interesse generale. È mancato, così, un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco, non valutando che nell’articolo erano anche riportati diversi giudizi positivi sulla donna e che non vi era alcun attacco personale gratuito.
Senza dimenticare che la donna era una figura pubblica, e dunque più esposta alle critiche, e che una condanna penale a danno di una giornalista ha sempre un effetto deterrente anche su altri giornalisti, a prescindere dalla severità della pena. Di qui la condanna della Serbia per violazione dell’articolo 10 della Convenzione e l’obbligo di corrispondere alla cronista 500 euro per i danni non patrimoniali e 386 euro per i costi e le spese.