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Fnsi 30 Mar 2003

Guerra in Iraq: trattati come clandestini i sette inviati italiani fermati dagli iracheni

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Guerra in Iraq:
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dagli iracheni

Il «rapimento» non era un rapimento. I giornalisti italiani che avevano fatto perdere le proprie tracce nella giornata di venerdì mattina erano stati fermati dalla polizia irachena che, dopo una giornata passata tra identificazioni e controlli, li ha trasferiti a Baghdad dove adesso si trovano in attesa di conoscere il proprio status giuridico. I sette si erano mossi venerdì mattina verso le dieci da Um Qasr, porto al momento sotto il controllo delle truppe inglesi. Un controllo relativo, perché di notte era possibile udire molte esplosioni indice della presenza di forze irachene. Avevano noleggiato a Kuwait City alcune jeep che avevano riempito di provviste, sacchi a pelo, acqua e taniche di benzina. I sette hanno percorso una quarantina di chilometri fino al villaggio di Al Zubajr, sobborgo di Bassora. Qui hanno incontrato un primo check point inglese poi si sono avviati dentro Bassora. Più avanti hanno visto sassi e copertoni, una specie di posto di blocco e subito dopo hanno capito che si trattava di una postazione irachena. I soldati inglesi gli avevano detto che la strada era «not safe» (non sicura), un genere di avvertimento di routine in casi del genere. Alle loro spalle è apparso un uomo armato in abiti civili, ma ormai erano passati. Sono quindi entrati a Bassora in colonna e solo allora si sono resi conto del fatto che avrebbero potuto raccontare cose che non erano mai state dette né scritte: Bassora era ancora nelle mani delle forze irachene, quasi per intero. Hanno visto persino gente che pescava, autobus del servizio urbano che funzionavano regolarmente anche se, nello stesso tempo, la città era allo stremo: in molte zone manca l'acqua, i viveri scarseggiano, anche se la rete elettrica tiene ancora. I segni dei bombardamenti erano molto visibili. A un certo punto gli inviati si sono imbattuti in una pattuglia di vigili urbani, ovviamente armati con l'elmetto, come in questo momento fanno quasi tutti i funzionari pubblici iracheni. Gli è stato intimato l'alt, probabilmente perché avevano notato le targhe kuwaitiane delle loro vetture; gli italiani hanno provato a spiegare che erano lì per documentare l'emergenza umanitaria e la situazione della città, hanno chiesto come raggiungere la Croce Rossa o la sede del vescovato. I vigili gli stavano rispondendo con molta gentilezza, cominciavano a fornire le indicazioni quando, purtroppo per loro, è sopraggiunto un uomo in divisa e con la kefyah in testa. «What are you doing here?», ha chiesto, e poi: «Sapete che non potete venire qui?». I colleghi hanno cercato di offrire sigarette ai poliziotti per facilitare un contatto ma con un gesto brusco quello ha fatto capire che non era il caso, anzi è andato a chiamare altri uomini armati che subito li hanno costretti a seguirli nella sede del partito Baath. Là il film era diverso, i funzionari erano sempre corretti ma davanti al palazzo si era radunata una piccola folla che ha cominciato a inneggiare a Saddam Hussein levando i mitragliatori al cielo. In quel momento hanno capito di trovarsi nella condizione di prigionieri. Un funzionario li ha fatti accomodare nella grande sala riunioni sotto il ritratto di Saddam e a questo punto è apparso un uomo grosso e anziano, in divisa verde militare, probabilmente il responsabile. Lo hanno presentato come un eroe, che nella stessa mattinata aveva fatto saltare due carri armati americani. Gli iracheni hanno anche trovato un interprete, un giornalista di Al Jazeera che parlava inglese e ha trasmesso loro le domande, mentre i funzionari aprivano ed esaminavano le loro borse e prendevano i passaporti: «Sapete che per entrare in casa di qualcuno si entra dalla porta principale e si chiede permesso?». I sette giornalisti hanno cercato di spiegare che non sapevano se la porta da quella parte fosse aperta o socchiusa. «Da questo momento siete ospiti del Governo iracheno», ha ribattuto il funzionario, «sarete alloggiati qui a Bassora e domani vi accompagneremo a Baghdad». Mentre li portavano all'albergo Sheraton, i sette hanno potuto fare un lungo giro della città anche se non sapevano quando avrebbero potuto raccontare ciò che stavano vedendo. L'albergo era buio, non c'era alcuna possibilità di lavarsi e di mangiare, hanno preso qualche scatoletta di carne dalle auto: in compenso era semivuoto e gli hanno assegnato stanzette singole. Eravano esausti ma i controlli non erano finiti: li hanno radunati nella hall e sono stati interrogati separatamente. Volevano sapere se fossero a conoscenza di movimenti militari inglesi o americani. I colleghi hanno risposto che erano lì per fare semplicemente i cronisti. Alle sei del mattino (le quattro di ieri mattina in Italia), i sette sono stati svegliati dai rumori di uno scambio d'artiglieria. Forse quello è stato il momento in cui hanno avuto più paura, anche perché ognuno era separato dagli altri e tutti si chiedevano quando ne sarebbero usciti. La gentilezza degli iracheni però li ha tranquillizzati. Per non fargli correre rischi durante il viaggio verso Baghdad, i militari di Saddam hanno accartocciato le targhe kuwaitiane delle auto e gli hanno dato una scorta. In quattro ore sono giunti nella capitale qui, la strada era sicura e sotto il controllo del regime. Le autorità irachene per il momento gli hanno spiegato che si trovano nella condizione di stranieri entrati illegalmente, in pratica clandestini, anche se - come hanno raccontato in tv - trattati molto meglio di come si trattano i clandestini in Italia. (Quotidiano Nazionale)

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