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Componenti Fnsi 25 Set 2006

Dibattito sul Sindacato L’intervento di Maurizio Andriolo e Mariagrazia Molinari

Molto stimolante la “riflessione” di Maurizio Andriolo sul sindacato unico dei giornalisti. Perché costringe, appunto, a riflettere, innanzitutto noi di Stampa Democratica, sul rapporto dei giornalisti con gli editori e sui rapporti interni al sindacato stesso.

Molto stimolante la “riflessione” di Maurizio Andriolo sul sindacato unico dei giornalisti. Perché costringe, appunto, a riflettere, innanzitutto noi di Stampa Democratica, sul rapporto dei giornalisti con gli editori e sui rapporti interni al sindacato stesso.

Abbiamo un sindacato unico ma nessun contratto Colui che vorrà leggere la storia sindacale dei giornalisti avrà molti momenti di costernazione. E’ il momento oggi in cui non basta indignarsi per un atteggiamento degli editori che da due anni negano un contratto. Sostenere le azioni della FNSI per riportare la controparte al tavolo della trattativa è un dovere, ma anche la dimostrazione che la categoria non vuole farsi sottomettere. Tuttavia il momento contingente non può esimerci dal discutere di noi, del futuro e del Sindacato. A che cosa serve il Sindacato? Secondo me a molto, ma se si dovesse spiegarlo ci sarebbero problemi e non solo semantici. Si apre una nuova stagione per il Sindacato dei giornalisti. Nuova se le nostre intenzioni supereranno le difficoltà contingenti, ma determinanti per il futuro! Intanto, la vicenda contrattuale è apertissima. Due anni senza contratto non potevano non provocare problemi gravi e alla categoria e ai nostri Enti, che tutelano la nostra autonomia. Quando lo firmeremo, è bene sapere che non potrà essere un “buon” contratto. Gli errori sono stati fatti. Il mancato accordo ha, non soltanto, scombussolato la categoria, ha creato fallaci illusioni, ha spalancato la porta a un sindacalismo demagogico, ma ha messo in forse anche la nostra tenuta federale, dove manovre e manovrine, aspirazioni e fallacità hanno fatto spazio alla nascita di grovigli, alleanze e coordinamenti di breve respiro, anelanti alla perpetuazione di poteri autoreferenziali. Si può oggi sfuggire alla preoccupazione di un Sindacato che sia soprattutto il più largamente rappresentativo? Niente affatto, nel momento in cui nostra controparte cerca di spazzare via dalla scena il concetto di giornalismo, frantuma le relazioni industriali. Tuttavia è nostro interesse aprire un dibattito profondo e determinato sulla natura e sul futuro del nostro Sindacato, sul futuro della categoria. Perché il nostro Sindacato fa parte del tessuto culturale del Paese, è forza di democrazia, proprio per questo ha enormi responsabilità. O è democratico e riformista o non è. Ma non per questo non si deve vedere la gravità della “questione sindacale”. Ciò che è’ stato il nostro Sindacato negli anni ’70-’80 è cosa ormai vetusta. Il rapporto di forza, la contrapposizione (ma non sempre e non tranciante) con gli editori è cosa passata. E’ vetero classismo quello di considerare nemici gli “altri”, quelli che non sono con “noi”. La conclusione delle ideologie, dei rapporti interclassisti, la trasformazione del nostro sistema politico, le relazioni tra soggetti diversi, il mutamento del nostro mondo del lavoro; l’irrompere di nuovi soggetti nel mondo del lavoro; il modo diverso di fare i giornali, di fare informazioni (modo buono o no è altra discussione) ha cambiato i rapporti sindacali, il modo di fare Sindacato. Non bastano più presenze, proclami, documenti, comunicati. L’articolazione del nostro mondo del lavoro e i soggetti che si trovano, non sono più classificabili sotto il solo schema del lavoro dipendente o autonomo professionale, men che meno subordinato. Ci sono nuovi bisogni, aspirazioni diverse, un accesso alla professione non burocratico e neppure soltanto accademico. La soggettività dei giornalisti al lavoro è modificata e non omogenea a schemi seccamente collettivi. E come ci si rapporta con il nuovo tipo di Editore nell’era della globalizzazione? E sufficiente arruffare qualche ideuzza politica di ferragosto, di abolizione di un Ordine, per cambiare? Che povertà di idee salottiere. Le imprese sono cambiate; si sono strutturate in forme organizzative, produttive, di responsabilità sociale che nulla hanno a che fare con il nostro “glorioso” passato. E il nostro Sindacato si contenta oggi di coordinamenti, tavole rotonde, statuto d’impresa di memoria slava, controlli tipo consigli anni ’20. Al di là delle note vicende politiche, è indubbio che si è definito un nuovo rapporto del Sindacato con il territorio. Brevemente: al nazionale ciò che è nazionale, alle Regioni ciò che loro spetta!… Quindi livelli diversi di organizzazione per consentire una più ampia partecipazione, perché i bisogni individuali sono diventati primari, mentre spetta al Sindacato coniugare e coordinare i bisogni con i concetti di solidarietà nazionale e di orgoglio di categoria. Ma non basta: il rapporto con il mondo politico, quale esito ha dato? L’entrismo non ha convinto. Ha diviso di più, non ha contribuito all’ampliarsi della sindacalizzazione. Non ha provocato un salto di qualità professionale. Il distacco contrapposto non ha senso. Il rischio è di finire per indirizzarsi verso una sorta di collateralismo velleitario dominato da una vocazione interna alla egemonia. Il Sindacato è certamente un soggetto politico, ma la sua autonomia non deriva solo dagli Enti che lo affiancano e in qualche modo lo garantiscono, bensì da una dialettica paritaria, della distinzione dei ruoli; Sindacato quindi democratico e pluralista, non di maggioranza e minoranze. La democrazia non va d’accordo con un Sindacato unico, particolarmente se esso non sa stimolare la ricchezza del dibattito interno. E non si coniuga democrazia con l’arido principio di maggioranza e minoranza. Forse è tempo di costruire una modulazione sindacale diversa, non monolitica. Oppure pensare a una riforma federale diversa. Una nuova progettualità. Non dobbiamo invocare l’unità, piuttosto dobbiamo verificare con insistenza le convergenze che possono derivare da una pluralità di voci sindacali e dai dissensi. Altrimenti non ci attende altro che il declino. Al di là di come si concluderà l’attuale vicenda, è opportuno comunicare ai giornalisti che, pur mantenendo una cornice nazionale, la via di contratti triennali o biennali che danno più spazio e ruolo alla contrattazione territoriale o aziendale permettono con un maggiore protagonismo degli operatori, una dinamica agile e un’aderenza alle realtà che sono sorte. La parte nazionale mantiene la sua caratteristica solidaristica e professionale. Il “secondo livello” (si fa per dire) deve essere capace di aumentare “l’area di inclusione dei giornalisti esclusi”. Quei giornalisti, oggi già maggioranza nella categoria che sono free lance, collaboratori, precari e che non possono trovare protezione totale in un contratto di lavoro di dimensione nazionale ma che invece potrebbero avere più spazio in una dimensione regionale. Per concludere: le rinunce, i mancati allargamenti del numero degli iscritti, il non crescere, rischia di condurre la categoria ad un diverso modo di vedere i rapporti con gli editori, rapporto più individualistico e persino servile. Maurizio Andriolo Milano, 23 settembre 2006 Sindacato, coraggio, dignità professionale e altro Un primo intervento dopo la “riflessione” di Maurizio Andriolo Molto stimolante la “riflessione” di Maurizio Andriolo sul sindacato unico dei giornalisti. Perché costringe, appunto, a riflettere, innanzitutto noi di Stampa Democratica, sul rapporto dei giornalisti con gli editori e sui rapporti interni al sindacato stesso. Un’affermazione mi ha colpito, in particolare. Scrive Maurizio Andriolo: “Il sindacato è certamente un soggetto politico...”. Gli chiedo di rimando: sei sicuro che lo sia ancora? Perché lo è stato certamente in passato, ma ora mi sembra che non abbia più alcuna voce in capitolo. In nessun capitolo. I governi - non a caso uso il plurale - appaiono del tutto disinteressati ai problemi dell’informazione, se per informazione si intende il ruolo indipendente, rispettoso della deontologia, al servizio dei lettori che il giornalista “deve” (dovrebbe) svolgere. Sono interessati, gli editori, alle provvidenze sull’editoria. Esibiscono le tessere di appartenenza partitica (o di area). Scambiano i gadget con le notizie. Vendono le notizie per ottenere - o non perdere - la pubblicità. Ma qualcuno di noi ha mai letto una critica alla nuova collezione di un guru della moda? Ha mai visto “bocciare” una nuova automobile, super-lanciata in tv e sulla carta stampata? I giornalisti sono diventati l’optional indispensabile degli editori. Essendo optional non meritano particolare attenzione, essendo indispensabili devono avere un contratto su “misura”. Degli editori, naturalmente. E infatti i giornalisti non riescono ad avere un contratto che tuteli la professionalità, la possibilità di scrivere quello che hanno visto (se non è in linea...). Ad ogni rinnovo, dieci passi indietro. Per i molti che rifiutano di essere asserviti - e non hanno nomi altisonanti con stipendi adeguati -, la vita è guerra continua. Però, dobbiamo essere onesti. Difficile ottenere rispetto se neppure noi rispettiamo noi stessi e la nostra professione. Allora, abbiamo colleghi che fanno i giornalisti, commentano, moralizzano e intanto lavorano per i servizi segreti. E’ così difficile dire, a questi colleghi, che devono scegliere: 007 o giornalista. Ingannare, strumentalizzare il lettore per un non ben identificato “bene superiore della Patria” (di personalissima interpretazione) è inaccettabile per tutta la categoria. Ancora. Ci sono aspiranti giornalisti che accettano compromessi di questo tipo: scrivono gratis (o quasi) per un giornale, ricevono alla fine del mese un assegno a loro nome, vanno in banca e lo cambiano, poi riportano i contanti al loro “editore” forse trattenendo pochi euro. La mancia. In cambio, dopo due anni o più, la dichiarazione per ottenere l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti, elenco pubblicisti. (Storia vera, riportata dal segretario della Federazione della Stampa). Chi spiegherà a questo qualcuno che la dignità è il fondamento della professione? Che non esiste dignità accettando di fare il tappetino? Al momento mi fermo qui. Dicendo a Maurizio Andriolo che ha ragione quando sostiene che un sindacato che non cresce rischia di condurre la categoria a un rapporto più individualistico e più servile con gli editori. Ma aggiungo: un sindacato per crescere deve essere coraggioso, al suo interno e all’esterno. Io, da parecchio tempo, di coraggio ne vedo proprio poco. (A proposito, coraggio non è sinonimo di ideologia). Il che mi porta a riflettere sull’essenza del sindacato e sul suo futuro. Ma questo è un argomento che merita di essere trattato a parte. Mariagrazia Molinari Milano, 24 settembre 2006

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