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Gruppi di Specializzazione 26 Dic 2008

Intercettazioni e diritto all'informazione, il Ddl Alfano ha un solo vero obiettivo: limitare il diritto dei cittadini ad essere informati

L’intervento di Maria Francesca Chiappe, Presidente del Gruppo Cronisti Sardo al convegno di Cagliari del 13 dicembre scorso con l'Associazione nazionale magistrati e vari avvocati su “Intercettazioni e diritto all’informazione” nell’aula magna del Palazzo di giustizia.

L’intervento di Maria Francesca Chiappe, Presidente del Gruppo Cronisti Sardo al convegno di Cagliari del 13 dicembre scorso con l'Associazione nazionale magistrati e vari avvocati su “Intercettazioni e diritto all’informazione” nell’aula magna del Palazzo di giustizia.

Intercettazioni e informazione: questo è il tema del convegno. E io parlerò di informazione ma non di intercettazioni. E non tanto, o meglio, non solo perché se il disegno Alfano dovesse diventare legge non ci sarà più niente da pubblicare visto che, a quanto pare, non si intercetterà più nulla (tanto valeva inserire un articolo con scritto: i giornali sono liberi di pubblicare tutte le intercettazioni che vogliono). No. Non parlerò di intercettazioni per con cadere nel tranello teso con sapiente regia da chi vuol far credere che il disegno di legge Alfano regoli la pubblicazione delle intercettazioni mettendo un freno a quella che viene definita la "sistematica violazione della privacy dei cittadini in un Paese dove siamo tutti intercettati". Per la cronaca: la Procura di Cagliari nel 2008 ha intercettato 1957 utenze, e le utenze non coincidono col numero degli indagati perché, soprattutto i trafficanti di droga e di esseri umani, usano molti telefoni e molte schede telefoniche. E poiché per oltre l’80 per cento le intercettazioni riguardano indagini sulla criminalità organizzata coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia che ha competenza sull’intero territorio regionale, non si può certo dire che siamo tutti intercettati: meno di duemila bersagli, come gli chiamano gli addetti ai lavori, contro un milione e seicentomila abitanti. Tanto per dare subito i numeri. Per carità, il ddl regola anche la pubblicazione delle intercettazioni: nel senso che inasprisce le pene. In realtà il ddl interviene a regolare la pubblicazione di altro. Tutto l’altro, l’intera indagine preliminare, fino all’udienza preliminare, la chiusura dell’indagine preliminare. Regola, nel senso di vieta. E non vieta la pubblicazione soltanto degli atti di indagine (nemmeno per contenuto o per riassunto, perfino se non più coperti dal segreto), ma anche l’attività di indagine, fino alla conclusione dell’udienza preliminare. La novità sta tutta in due frasi: “anche se non più coperti dal segreto”, e “attività di indagine”. Due frasi che si traducono così: i giornali non possono pubblicare nessuna notizia su un’indagine in corso, figurarsi i nomi e le accuse, ma neanche le perquisizioni, gli accertamenti tecnici irripetibili come le perizie necroscopiche, gli incidenti probatori, le analisi su impronte digitali e dna. Neppure gli arresti. Quindi, l’informazione del futuro sarà così: si libera Titti Pinna, indica il luogo dal quale è scappato, i carabinieri lo trovano e arrestano il proprietario, sui giornali non sarà dato conto né dell’arresto di Salvatore Atzas né del ritrovamento del covo-prigione, neanche il racconto dell’ostaggio agli inquirenti sulla durissima prigionia. Nulla, fino al rinvio a giudizio che, per non far scadere i termini di custodia cautelare, deve avvenire entro un anno. Allora sì, un anno dopo, quando l’opinione pubblica sarà concentrata su altre emergenze di cronaca, l’alluvione di Capoterra per esempio, potremo dire che l’ostaggio viveva fra i topi, non mangiava, era legato mani e piedi, etc. Tanto, per sapere delle truffe di chi ha inventato danni per lucrare i soldi stanziati per gli alluvionati bisognerà aspettare: cos’è tutta questa fretta? E meno male che hanno fatto il direttissimo altrimenti col ddl Alfano in vigore non avremmo potuto scrivere nulla. E se non scriviamo nulla non è successo nulla. L’alluvione sì, le truffe no. E forse, anzi, senza forse, è proprio quello che si vuole. E’ vero che se anche non si potranno più pubblicare atti e attività di indagine nessuno potrà impedirmi di riferire il fatto storico: vedo i carabinieri portar via un uomo in manette, mi informo, chiedo ai vicini nome e cognome. Ma poi come faccio a sapere se era davvero un arresto o se invece poi lo hanno liberato? Mi devo sistemare sotto casa ad aspettare? D’accordo, mi apposto, è il mio lavoro: ma come faccio a sapere perché lo stanno portando via? E con quali prove? Posto che ogni giornale abbia schiere di giornalisti dislocati in ogni dove per cogliere l’attimo, non avranno mai la conferma di quel che vedono. Sì perché purtroppo, o per fortuna, in questa materia c’è sempre bisogno della conferma di una notizia, difficilmente basta essere stati testimoni oculari per poterla riferire correttamente, i giornalisti hanno bisogno di sapere qualcosa non dico sugli atti, almeno sull’attività della polizia giudiziaria. Dirò di più: il ddl Alfano entra in rotta di collisione col recentissimo ordinamento giudiziario, del 2006, entrato in vigore nel febbraio 2007, che riserva in esclusiva al procuratore della Repubblica, o un suo delegato, i contatti coi giornalisti. Due anni fa la volontà del legislatore dunque era nel senso di un irrigidimento ma non di una totale chiusura verso il mondo dell’informazione. Se passa il ddl Alfano le due norme sono in contrasto: si dovrà ritenere superata quella dell’ordinamento giudiziario immagino, oppure no? Ed ecco cosa succederà se passerà la legge: uccidono un uomo, facciamo pagine sul delitto, intervistiamo i vicini, i parenti, i conoscenti, i colleghi, ma quando gli inquirenti trovano l’arma del delitto, fermi tutti. Non si scrive più niente. E’ un’attività di indagine di cui nessuno deve sapere nulla. Arrestano l’assassino? Nulla fino alla conclusione dell’udienza preliminare. Arrestano la Ranno? Silenzio. Arrestano i vertici dell’Antidroga dei carabinieri accusati di spacciare e usare la droga in sequestro? Nulla. Arrestano gli assassini della vecchina di via Azuni? Niente. Bocche cucite pure sugli extracomunitari che hanno rischiato l’espulsione perché irregolari pur di indicare ai carabinieri gli assassini, loro connazionali. Niente di niente. Quindi, silenzio anche sul carabiniere tunisino indispensabile nelle indagini per l’ascolto delle telefonate dei sospettati. Nulla. E’ un omicidio di poco più di un anno fa, il processo sarà fa qualche giorno, sfido chiunque a vivere oggi il clamore di quel fatto. E della ragazza venuta al giornale per denunciare le decine di querele presentate contro lo stalker che le impediva di vivere potremmo scrivere? Penso di sì, è la storia di “attività di indagine” non fatte, di “atti di indagine” non raccolti. Ma se grazie al giornale l’indagine ha nuovo impulso e lo stalker viene arrestato, come è realmente successo? A quel punto zitti e mosca. Fino al processo. Faremo giornali a puntate così concepite: la prima e la seconda, magari la terza si susseguiranno giornalmente, per le alte appuntamento all’anno dopo. Sia chiaro: non vengo qui a raccontare che le notizie le pubblichiamo a tutela dell’indagato o dell’arrestato, per il semplice motivo che non è vero, o meglio, è vero qualche volta. A Cagliari ricordo l’inchiesta sulla microeversione che ha portato dieci persone in cella sulla base di intercettazioni ambientali: c’era chi aveva l’interesse che si pubblicassero nella convinzione che gli arresti si basassero su dialoghi che non dicevano nulla di compromettente. Gli altri casi che mi vengono in mente sono nazionali: Rignano, con le maestre accusate di abusi sessuali sui bambini, e Gravina, con la morte dei fratellini e l’arresto del padre per omicidio volontario. In quei casi i giornali hanno fatto le pulci alle carte processuali rivelando la scarsa consistenza delle inchieste molto tempo prima dei giudici. Sono casi in cui il lavoro della stampa rende tangibile l’importanza del controllo sociale sull’attività giudiziaria e non bisogna dimenticarlo mai perché un’indagine che si svolga nel silenzio assoluto si presta a distorsioni di ogni tipo. Non a caso è tipico dei regimi autoritari il bavaglio alla stampa: la gente sparisce e nessuno sa perché. Dunque è importante anche il controllo dell’opinione pubblico su chi effettua quell’attività, e c’è un’opinione pubblica solo se ci sono informazioni. A questo proposito mi chiedo: se una persona finita in cella viene scarcerata e mi porta gli atti per dirmi , posso scrivere? Temo di no, perché la legge non distingue le fonti di provenienza: che la notizia arrivi dagli inquirenti, dagli avvocati o dagli indagati il divieto è lo stesso. Così almeno sembra. A meno che non si riveli possibile l’escamotage dell’intervista all’indagato che cita gli atti. Non so, giro il quesito agli esperti. Non è sempre così, comunque. Nella gran parte dei casi le notizie si pubblicano per soddisfare il diritto dell’opinione pubblica a essere informata su fatti di interesse generale, che non è un capriccio ma un diritto garantito dalla Costituzione: l’informazione giudiziaria nel rispetto di tutti, delle vittime e degli indagati. Ma qui entriamo in un altro campo. Possiamo essere accusati, e lo siamo, di volta in volta, di essere filo procura o filo difesa, l’importante è l’onestà, la correttezza di chi prima si informa e poi informa. E se sbaglia ci sono le sanzioni, penali e civili. Ci sono prima del ddl Alfano e non sono neanche lievi: basti pensare che la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di fatto determinato (scrivere cioè che una persona ha commesso un reato) è punita con la reclusione fino a sei anni. Non sono bazzecole, per reati cosiddetti d’opinione. Contro i quali non esiste neanche la possibilità di assicurarsi per far fronte alle richieste di risarcimento perché la diffamazione è sempre e soltanto dolosa, quando sussiste. E poi ci sono i procedimenti disciplinari, davanti all’Ordine dei giornalisti. E allora, che cosa dobbiamo pensare? Abbiamo il sospetto che il ddl Alfano voglia bloccare la cronaca nera e giudiziaria. E pazienza se pensando di tutelare il governatore della banca d’Italia, i politici e i colletti bianchi in generale ci si trovi costretti a vietare, in nome della privacy, perché quello è il faro, anche la pubblicazione dell’arresto di Riina o Provenzano (parentesi: se anche li vediamo in questura, se nessuno ci dice che sono loro vorrei proprio sapere come li riconosciamo) o del serial killer dei treni o degli assassini di Erba o dei responsabili della Tyssen group o del poliziotto che in autostrada ha sparato e ucciso un tifoso della Lazio. Ma, e forse sto per dire una fesseria, e qui ci sono tanti esperti che potranno correggermi, forse il ddl Alfano involontariamente lascia uno spiraglio: vieta la pubblicazione di atti di indagine fino alla conclusione dell’udienza preliminare, tra le indagini e il gup c’è però la richiesta di rinvio a giudizio. Che non è un atto di indagine tantomeno un’attività di indagine. E allora? Siccome la legge non dice nulla io forse io procedo, sempre in ritardo, ma comunque prima dell’udienza preliminare, e informo i lettori dell’esistenza di un’inchiesta, degli indagati, dei reati contestati, non so se anche delle prove, io penso di sì. Se prima non ci sono state perquisizioni, incidenti probatori, accertamenti irripetibili, misure cautelari, cambierebbe poco rispetto a ora che pubblichiamo le notizie dopo l’avviso di conclusione delle indagini: la richiesta di rinvio a giudizio arriva venti giorni dopo, o giù di lì. Potrà essere un modo per aggirare una legge che punisce chi vuol sapere, chi vuol informare. E che si tratti di una legge punitiva nei confronti dei giornali prima che dei cittadini, che sono i destinatari dell’informazione e i titolari del diritto costituzionale, è lampante in un passaggio: quello previsto dall’articolo 15 del ddl Alfano che impone la pubblicazione della rettifica senza commento. Direte: giusto. Rispondo: giusto se la rettifica corregge un errore del giornalista. Mi spiego: non avete idea di quante richieste di rettifica di notizie precise, non voglio usare il termine esatte, ma corrette, circostanziate, verificate, vengano richieste. Molti chiedono rettifiche di articoli che non hanno neppure letto: qualcuno ha telefonato, ha detto a un altro che poi ha riferito… Non vi dico che cosa ne vien fuori. Ora: io spiego e, se proprio proprio l’interlocutore insiste, la rettifica la pubblico. Ma consentitemi di ribadire la correttezza della notizia. Il ddl Alfano no, me lo impedisce: la rettifica va senza commento, quindi, chi chiede la rettifica ha sempre ragione, quindi, il giornalista ha sempre torto. In teoria potrà dunque succedere pure questo: siccome non potrò più scrivere nulla sulle indagini, sugli arresti, e magari scriverò, forse, di una sentenza col rito abbreviato, dunque la notizia sarà tutta lì, l’imputato potrà chiamarmi e dirmi: non è vero che sono stato condannato, non è vero che ero indagato, non è vero niente. E io non potrò ribadire nulla. Oppure riscrivo un articolo identico al precedente a fianco alla rettifica? E l’imputato chiede un’altra rettifica di nuovo e così andiamo avanti all’infinito? E’ solo una riga ma la dice lunga sul pensiero del legislatore circa giornali e giornalisti. Se il lettore si ritiene diffamato quello basta per pubblicare una rettifica senza commento. E’ come dire: i giornali scrivono solo fesserie. Magari le scriviamo pure, ma non sapete quante fesserie dice e scrive chi chiede le rettifiche. Poi, comunque la strada la troviamo. Forse potrò perfino ricorrere al giudice. Provoco: il lettore con la rettifica mi dice che io ho scritto il falso, e per me quella è un’accusa gravissima perché un giornalista che scrive il falso è passibile perfino di licenziamento, e allora mi posso rivolgere al giudice perché sono stata diffamata, a mezzo stampa, con l’attribuzione di un fatto determinato. E credo che in questo caso il direttore non possa essere responsabile di omesso controllo: è costretto alla pubblicazione dalla legge. Oppure, proprio per non incorrere nella responsabilità oggettiva, il direttore controlla, vede che la rettifica è nella sostanza diffamatoria per il giornalista, e si rifiuta di pubblicarla. Due strade, la seconda immediata, la prima lunga, e costosa, come se i magistrati non avessero già tanto da fare. Ma non è meglio continuare con le risposte alle rettifiche infondate? Direte: ma la norma è palesemente incostituzionale, si solleverà subito la questione e la legge sarà da rifare. Certo. Però: per arrivare alla Corte costituzionale bisogna che prima ci sia stata un’udienza preliminare, per arrivare all’udienza bisogna commettere il reato, per commettere il reato bisogna pubblicare notizie impubblicabili. Si apre l’inchiesta, c’è la richiesta di rinvio a giudizio, etc etc. Facile. No. Non è facile. Per due motivi. Il primo: il giornalista che pubblica atti vietati finisce subito sotto procedimento disciplinare perché la Procura, col ddl Alfano, ha l’obbligo di informare il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti - l’obbligo, si badi bene, e così l’Ordine è un organo di autodisciplina per modo di dire - e il giornalista rischia la sospensione dalla professione fino a tre mesi. E scusate se è poco. Tre mesi senza stipendio, tanto per cominciare. Il secondo motivo: poiché il ddl Alfano allarga alle aziende editoriali le norme della legge 231 sulla responsabilità penale per il fatto dei dipendenti, ecco che il giornalista rischia addirittura il posto di lavoro. Le aziende dovranno infatti attivarsi per evitare che i giornalisti pubblichino atti e notizie di cronaca nera e giudiziaria, se dunque gli editori organizzano protocolli e il giornalista li viola credo potranno avviare la procedura di licenziamento per giusta causa. Hai voglia di aspettare la chiusura delle indagini, il rinvio a giudizio, l’udienza preliminare, l’eccezione di incostituzionalità, la sentenza della Corte costituzionale. Nel frattempo il giornalista è a spasso. A meno che l’editore non sia d’accordo con la nostra battaglia, anzi la appoggi, proprio per arrivare alla Corte costituzionale. Nel qual caso saremo tutti ben felici. In caso contrario? Chi rischia? Io sarò anche coraggiosa ma confesso: non fino a questo punto. E allora discutiamone prima, per cercare di evitare che questo scenario divenga realtà. Ho finito. Anzi no. Avevo detto che non avrei parlato di intercettazioni ma ho cambiato idea e ne parlo, velocemente. Dico subito che la materia va regolata, perché bisogna evitare che finiscano sui giornali, come è successo, e qui noi giornalisti dobbiamo fare il mea culpa, conversazioni di nessun interesse pubblico che viceversa possono rovinare la vita sociale delle persone. Ne parlo, dunque, e prendo spunto proprio dalle intercettazioni usate per sostenere che sia il momento di dire basta alla pubblicazione indiscriminata e per varare una legge che, partendo da lì arriva ad altro, come abbiamo visto. Si dice che deve essere tutelata la privacy, la riservatezza, il privato delle persone, indagati e non. Giusto. Sono diritti garantiti dalla Costituzione, ci mancherebbe. I fatti privati devono restare tali. Nelle intercettazioni, nella pubblicazione delle intercettazioni, il problema principale è legato ai terzi intercettati, alle persone cioè che parlano con l’indagato sotto controllo, che non sono a loro volta indagate e che al telefono non riferiscono di fatti penalmente rilevanti, c’è poi il problema delle persone di cui l’indagato parli al telefono con un interlocutore diverso. Ebbene: quelle intercettazioni semplicemente non dovrebbero comparire fra gli atti dell’inchiesta. Non dovrebbero, ma qualche volta devono, e la valutazione non è mia che sono giornalista, ma prima del pm, poi, nel caso siano a sostegno di ordinanze o decreti, del gip, infine di tutte le parti processuali che, in un’udienza ad hoc, concordano su quali conversazioni conservare. Dunque ci possono essere conversazioni con terzi non indagati o su terzi non indagati importanti per l’accusa che non vengono distrutte, e intercettazioni che per il pm non hanno valore ma nelle quali viceversa l’avvocato intravvede una strada per la difesa. Scelte processuali, insindacabili da chiunque, a cominciare dal legislatore. Quindi, dire che le conversazioni con terzi non coinvolti nell’indagine debbano essere espunte e distrutte tout court non ha senso. Faccio un esempio: nel processo per il sequestro di Vanna Licheri, sul finire, il pm produce una conversazione della madre dell’imputato, una sorpresa dopo l’ennesimo ascolto dei nastri da parte degli inquirenti. Era intercettato il telefono fisso dalla casa dove viveva l’imputato e la madre non era indagata. A un certo punto la donna parlava con un amico del figlio e gli diceva di andare in un certo posto dove il figlio soleva far feste, lì avrebbe trovato una bella compagnia. Conversazione neutra, apparentemente: parlavano due persone che col processo non c’entravano nulla e non di fatti – reato. Invece è un passaggio processualmente importantissimo, direi decisivo: prova la frequentazione di un posto, sempre negata dall’imputato, che per l’accusa rappresenta una sistemazione logistica indispensabile durante il sequestro. Questo per dire: è semplicistico sostenere di distruggere le conversazioni che non sono attinenti al processo. Frasi neutre possono rivelarsi decisive, e per l’accusa e per la difesa. Quindi, cade il discorso dei terzi intercettati non indagati e delle conversazioni neutre sul fronte del processo ma contestualmente entra in gioco la responsabilità di noi giornalisti, perché poi alla fine il problema vero sta nella pubblicazione. Se le intercettazioni ci sono, sono trascritte, sono depositate, le hanno pm, imputati, avvocati e parti civili, può capitare, capita, è la regola, che finiscano in mano ai giornalisti. A quel punto cambia lo scenario, però, perché i giornalisti non si occupano solo di processi penali ma di tutto ciò che interessa la vita pubblica, quindi fatti socialmente rilevanti, fatti politicamente rilevanti. E se nelle intercettazioni - che altri hanno scelto di conservare perché utili per il processo - trovano una conversazione del direttore della Nazione che parla con un indagato, e lui indagato non è, di fatti di nessun rilievo penale ma che coinvolgono la sua deontologia professionale, come per esempio chiedere una casa gratis per le vacanze in Sardegna in cambio di indulgenza sul giornale, quella conversazione viene pubblicata. E’ un fatto di rilievo sociale, di interesse pubblico, anche se si tratta di un terzo intercettato, non indagato che non parla di fatti-reato. Ancora: se un’intercettazione viene messa da parte perché non serve all’indagine, eppure finisce, in maniera illecita, sulla scrivania di un giornalista, le sanzioni col ddl Alfano sono severissime. Direte: basta non pubblicarla. Certo. Ma se l’intercettazione filtrata in modo illecito riguarda l’esponente di un partito che fa il tifo nella scalata di Unipol a Bnl (sto parlando di Fassino che dice a Consorte ), è sotto gli occhi di tutti che si tratta di un fatto politico in quel momento non rilevante, rilevantissimo. Dunque, qualunque giornalista libero la pubblica. Qualunque giornalista libero da condizionamenti politici e dalla 231. Sì, perché con quella legge l’editore è responsabile penalmente e al giornalista dice: tu non scrivi proprio nulla, è una notizia, sì ma è anche un reato e siccome il tuo reato lo pago anch’io, non scrivi nulla. E qui è chiaro come l’estensione della 231 alle aziende editoriali mini alla radice l’autonomia dei giornalisti rispetto agli editori. Sono esempi. Ne faccio un altro, diverso: Anna falchi, moglie di Stefano Ricucci, l’immobiliarista romano coinvolto nella illecita scalata alle banche, il furbetto del quartierino, insomma. Le sue conversazioni hanno occupato per settimane le pagine dei quotidiani, prima quelle contenute nel decreto di perquisizione poi quelle depositate per il riesame. Fra quelle carte c’era anche un sms con scritto “ti amo”, dalla moglie, Anna Falchi, al marito, Ricucci. Non c’entrava nulla, i magistrati potevano, dovevano espungerlo, i giornalisti non dovevano pubblicarlo. Vero, verissimo. Anche perché, quella fesseria è stata usata per anni, e ancora oggi, come esempio di violazione della privacy di persone estranee alle indagini. Un ti amo da moglie a marito. Un ti amo da moglie a marito che ha convinto l’allora ministro della giustizia Mastella ad andare a Porta a porta e chiedere pubblicamente scusa alla signora Falchi. Per carità, è stato un errore, dei magistrati e dei giornalisti. Ma il ministro, le scuse in tv per un ti amo a una signora che sulla disgrazie giudiziarie del marito stava costruendo il lancio di una griffe di magliette con le scritte i furbetti, la furbetta e non ricordo cos’altro, lancio abortito quando il marito è finito in cella… Con questo non voglio dire che non ci siano state violazioni, anche pesanti e illecite, nella privacy di tante persone attraverso la pubblicazione delle intercettazioni. Ma non penso alla Falchi e al suo “ti amo”: penso alla figlia di Lorenzo Necci, alla quale nessun ministro ha chiesto scusa, una ragazza finita su tutti i giornali per le sue telefonate col banchiere Francesco Pacini Battaglia (indagato). E’ intervenuto il garante per la privacy e solo allora è stata la fine della gogna mediatica, quella sì, vera gogna mediatica. Prima che da punire da evitare. Penso a Maria Monsè, aspirante sconosciuta starlette di cui parlavano al telefono il portavoce di Gianfanco Fini, Salvatore Sottile, indagato e intercettato, e il dirigente Rai Giuseppe Sangiovanni: il pm di Potenza indagava per concussione sessuale, la vittima non era la Monsè eppure il pm ha infilato quella conversazione nella richiesta di arresto e il gip l’ha inserita nell’ordinanza. Risultato: su tutti i giornali c’erano i commenti telefonici dei due uomini sulle prestazioni di quella donna. E qui la responsabilità è nostra, dei giornalisti: ai magistrati forse quel colloquio serviva per provare qualcosa, non lo so, lo spero, per i giornali era solo volgare gossip da buttare in pasto al pubblico. Penso al figlio di Moggi intercettato mentre raccontava di aver speso non so quanto per aereo privato e cena con Ilaria D’amico che poi gli ha dato picche. Lei un figurone, lui matrimonio a pezzi. Dov’è l’interesse pubblico? (Parentesi: col ddl Alfano uno scandalo come quello del calcio non scoppierà più. Sui giornali erano finite le intercettazioni registrate nel corso di un’indagine della Procura di Torino archiviata. Quelle intercettazioni, parlo delle prime, erano state inviate alla Federcalcio per valutare i profili disciplinari, dopo quel passaggio erano finite nelle mani dei giornalisti. In futuro non sarà più possibile perché se l’inchiesta viene archiviata le intercettazioni vengono distrutte. C’è stata poi l’indagine parallela della procura di Napoli, che invece non è stata archiviata). Sempre sul fronte vallettopoli, l’indagine coinvolgeva tra gli altri Vittorio Emanuele di Savoia, un giro di prostituzione al casinò di Campione e macchinette per il gioco truccate: fra le tante frasi intercettate una sui sardi: . Perché è stata lasciata? C’entrava qualcosa con l’inchiesta? Lo dico perché io che faccio la giornalista in Sardegna, se la leggo la riporto sul giornale e non per puro pettegolezzo ma perché Vittorio Emanuele da sempre ogni anno incontra al largo di Santa Teresa il sindaco, e si dice amico dei sardi, quando ha avuto il via libera al rientro in Italia la prima pubblicizzatissima tappa è stata Castelsardo. A quel punto sapere che cosa realmente pensi dei sardi è una notizia. Il problema qui è a monte: se non c’entra con l’inchiesta, quella frase distruggetela. E non perché il giornalista sia incapace di discernere e tutto quello che vede pubblica, ma perché se in quel che il giornalista legge trova una notizia socialmente rilevante la pubblica, la deve pubblicare. Così per le telefonate di Ricucci che nulla c’entravano con l’indagine, incluse quelle sull’organizzazione del suo matrimonio. Puro gossip. Ma se quando si affannava per chiedere di bloccare la sua imitazione a Quelli che il calcio, , e poi la parodia nella trasmissione della Ventura è stata davvero bloccata (e l’editore sostituito), allora cambia tutto: un giornalista quelle le riporta perché riguardano la gestione di una rete televisiva pubblica, le censure in una rete televisiva pubblica. Ma da qui a dire che i giornali pubblicano solo conversazioni che violano la privacy ne passa. Eppure, dopo il “siamo tutti intercettati” è questo il messaggio che, grazie soprattutto agli errori di vallettopoli, è passato. Sulla drammatica vicenda di Nugnes, l’assessore napoletano morto suicida due settimane fa, ho letto che poco prima di morire aveva confidato a un giornalista di Repubblica di temere di essere intercettato, aveva paura soprattutto di perdere la moglie, questioni di donne. Se questo è vero, vuol dire che la convinzione comune è che i giornalisti pubblicano notizie personali che rovinano le relazioni private delle persone. Ed è terribile perché vuol dire che il messaggio è ormai passato: i giornalisti non hanno pubblicato le intercettazioni che hanno costretto, dico, costretto, Fazio a dimettersi, altrimenti sarebbe ancora lì, ma il gossip; i giornalisti non hanno pubblicato le conversazioni che hanno costretto, dico costretto, il mondo del calcio a liberarsi dal marciume, ma il gossip. Solo ed esclusivamente il privato privatissimo, la Falchi, la D’amico. Tutto il resto, il gravissimo resto, a dimenticare. Cito inchieste continentali perché qui problemi di questo tipo non ci sono stati. Nel processo Piroddi, la sindacalista condannata per associazione di stampo mafioso, c’erano intercettazioni di tipo sentimentale con un altro indagato ma non le abbiamo pubblicate. Eppure, proprio in quel caso erano penalmente rilevanti perché provavano lo stretto legame fa i due, non a caso la difesa ha trascorso intere udienze a cercare di dare un significato diverso alle parole che i due si scambiavano in auto. Per il resto nelle inchieste sarde non ricordo di aver letto conversazioni pruriginose, peccaminose, di liaison, tradimenti o quant’altro. Ecco, il problema sulle intercettazioni è legato a questi problemi. Chiedo: possibile non si possa fare in modo di evitare gli eccessi senza negare ai cittadini il diritto a essere informati?

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